Ma le neviere non esistevano soltanto in Sicilia. Anche qui da noi, in tutti i centri della Puglia, vennero creati dei depositi, le neviere appunto, da dove il prodotto veniva regolarmente distribuito al dettaglio dai nevaroli, che avevano avuto l’appalto del prodotto per i vari paesi.
Lucia Lopriore, con la sua minuziosa ricerca “Le neviere in Capitanata. Affitti, appalti, legislazione ” proietta un fascio di luce su questa vitale tradizione, sottraendola al silenzio e alla preziosa “muffa” dei documenti dell’Archivio di Stato di Foggia. I contratti d’appalto, documentati paese per paese, aprono uno spaccato su un mondo forse perduto. Il linguaggio “notarile”, burocratico, ostico per i non addetti ai lavori, acquista un senso.
Già dall’inizio dell’Ottocento, l’illuminista vichese Michelangelo Manicone, ne “La Fisica Appula”, attestò la presenza di neviere: “A San Marco (in Lamis) è ben vero, che nella state havvi molta neve conservata ne’ boschi”. “Quanto è caldo di està il clima Sammarchese, altrettanto è rigido nella invernale stagione. Cinta essendo questa popolazione all’Est, al Nord, ed all’Ovest da eccelse aspre montagne, vi cade spesso molta neve, che vi resta molti giorni; e di qui l’algente freddo di San Marco”. Rignano Garganico aveva un clima ancor più rigido: “Giace Arignano su di una grossa e nuda rupe, ed è dappertutto circondato da un suol pietroso. Più freddo di quello di San Marco è poi nel verno il suo clima”. E Manicone raccomandava caldamente allo sprovveduto “forestiere”: “Stattene qua solo nella stagione de’ fiori!”.
A quel tempo, in Capitanata, luoghi come San Marco in Lamis e Rignano, tradizionalmente vocati alla caduta degli “algidi cristalli”, alimentarono quindi una vera e propria catena del freddo. Dalle neviere, la neve veniva smistata nel Gargano Nord, dove i bianchi fiocchi non cadevano quasi mai, ma anche nei paesi in cui il prodotto locale non era sufficiente al bisogno. Come nel Palazzo Ducale di Urbino, le neviere erano spesso presenti negli ambienti ipogei dei palazzi. I Loffredo, signori di Sant’Agata, Bovino e Guevara ne possedevano due. La famiglia che ebbe la “privativa” della neve su Foggia fu quella dei Marchesi Cavaniglia, nobili “illuminati”, provenienti da San Marco dei Cavoti. In Capitanata detenevano i feudi di San Giovanni Rotondo e di Rodi Garganico. Già dal Settecento, mandavano i loro trabaccoli carichi di agrumi, non sappiamo se stipati anche di neve compressa, fino a Trieste. A Foggia i due prodotti vennero sicuramente smistati assieme. Anche nel caso della nobile famiglia rodiana, come per i siciliani principi Alliata, duchi di Buccheri, il cerchio si chiudeva, probabilmente, sul nesso: Neviere/agrumi/commercio. Un’ipotesi ancora tutta da sondare.
Anche in molte masserie fortificate nobiliari sparse nel Salento, vi erano delle neviere. Una “…neviera atta a conservar la neve…” è riscontrabile presso la masseria Favarella, di Acaya, di proprietà nel 1674 del pizzimicolo di Lecce Andrea Favarella, dal quale, poi, prese il nome attuale. Una delle neviere più grandi che si conosca è quella che si trova sotto il castello Carlo V, costruito dall’architetto militare Gian Giacomo dell’Acaya di Lecce. Anche Caprarica ebbe le sue neviere; una era posta, lo testimonia il Catasto Onciario del 1744, presso una casa-torre, di proprietà di Diego Brunetti, patrizio di Lecce (p. 244 del catasto). Il documento recita: “…Possiede il Palazzo con più e diverse camere superiori ed inferiori, stalle, rimesse e nivera con piccolo giardino di delizia, sito fuori l’abitato per uso proprio e del suo agente”.
UN TREKKING FRA LE ANTICHE NEVIERE DEL GARGANO
Le neviere sono dei monumenti non di arte ma della tecnica umana, degne di restauro e recupero, nelle loro tre tipologie a groppa, a dammuso e a cupola. Sarebbe auspicabile che, a livello di singolo comune, gli Uffici tecnici effettuassero un censimento delle neviere tuttora esistenti in Capitanata, per poi procedere al “restauro”, nell’ambito di una proposta di “archeologia industriale”. Il libro della Lopriore può far loro da guida, per individuare e localizzare i siti ormai interrati. Forse nel Subappennino, a Faeto, qualche presenza c’è ancora. Come ci sarà sicuramente in qualche luogo d’altura del Promontorio del Gargano o della Foresta Umbra. Affascina l’idea, già realizzata in certe realtà turistiche dei monti Iblei, di un “Trekking fra le antiche neviere”. Qui da noi si potrebbe creare un itinerario nell’ambito dei “percorsi” del Parco Nazionale del Gargano. Partire dalle neviere di Monte Sant’Angelo, di San Marco in Lamis, o della Foresta Umbra, di Cagnano Varano o di Vico del Gargano, per arrivare all’oasi agrumaria di Rodi, Ischitella e Vico del Gargano. Un percorso, completamente da inventare, quello del Trekking nelle neviere di Capitanata. Archeologia industriale, e percorso del gusto. Insieme. Da proporre ai numerosi turisti alla ricerca di tour diversi da quelli incentrati su sole e mare. Nulla di nuovo sotto il sole: è stato già “testato” in Sicilia. Nel 2001 Italia Nostra, sezione di Siracusa, per illustrarlo, ha pubblicato un libro dal titolo emblematico: “La neve degli Iblei. Piaceri della mensa e rimedio dei malanni”. Vi hanno contribuito autori vari, che hanno giostrato a tutto campo su questo tema monografico, mettendo in risalto anche il collegamento neve/ medicina omeopatica, oltre che neve/arte del sorbetto.
La ricerca di Lucia Lopriore potrebbe essere da noi tutti “rilanciata” con lo spoglio dei Catasti Onciari pugliesi. Potrebbero sicuramente riservare inedite sorprese.
TERESA MARIA RAUZINO
recensione al volume di LUCIA LOPRIORE, "Le neviere in Capitanata. Affitti, appalti, legislazione", Edizioni del Rosone, Foggia 2003, euro 18.
Le mondine sono nel Web 2.0 e voi non lo sapete. Ci sono con le loro storie di scarpe rotte, la lobia in testa, la schiena spezzata, tutto il giorno con le gambe nell’acqua a mondare riso per dodici lire, e ora il loro lavoro lo fanno i diserbanti. Cercatele e troverete voci, foto, video delle tournée e un documentario. Uno le vede un giorno l’anno, il 25 aprile. La domenica, alle dieci di mattina, quando c’è da commemorare qualcosa, subito dopo il sindaco cantano Saluteremo signor padrone. E gli uomini di una certa età se ne stanno col cappello in testa, e ricordano. Invece queste ragazze, tra un 25 aprile e un Primo Maggio, quest’anno se sono andate in Canada, a New York e in Scozia. A cantare nelle City Hall, con i critici in delirio e le tv in fila per intervistarle.
La tournée delle mondine è stata raccontata in un blog, Mondine 2.0. Dentro ci sono un sacco di cose, dalle email commosse del canadese fan della musica folk alla storia del nipote dell’emigrante che non conosce l’italiano, figurarsi il dialetto di Novi. Ma anche i ringraziamenti del ricercatore di neurobiologia che ha un contratto alla Berkley University ma ha studiato a Napoli, anche lui emigrante. Non è finita: le ragazze hanno raccolto una standing ovation e venti minuti di applausi al Festival del Cinema di Toronto, lo scorso settembre. Lì, in anteprima mondiale, è stato presentato il documentario che racconta un anno della loro vita. Prodotto da Davide Ferrario, girato da Andrea Zambelli, Di madre in figlia – questo il titolo – ri-debutta al Festival di Torino il 21 novembre.
A portarle dal paesino dove si esibivano alle City Hall di tutto il mondo è stato Alberto Cottica, musicista dei Modena City Ramblers. Che con le mondine, dice, c’è cresciuto. "Le mie zie, le prozie, tutti nel mio paese avevano avuto una donna che da ragazza era andata a fare la bracciante. In Emilia è così per tanti. Difficile era non raccontarle. Ce le portiamo dentro, bastava solo portarcele dietro". Cottica – che si occupa anche di creatività e sviluppo locale per il ministero dello Sviluppo – le ha chiamate a suonare col suo gruppo Fiamma Fumana (che in Emilia vuol dire nebbia) qualche anno fa. Il progetto ha una vita lunga, e ancora non è finito.
Cottica ci ha messo tre anni a insegnare alle Mondine del coro di Novi cos’è un deejay, come si fa ad andare a tempo con una pulsazione elettronica. Ma sono state più le cose che le ragazze di Novi hanno insegnato a lui. "Sono i nostri anziani della tribù, ma non sono antiche, sono presenti. Anzi, nuove. Quando ascolti le loro storie – osserva – ti passano tante paranoie, le incertezze di una vita fluida, precaria. La loro è una vita giorno per giorno, e ogni giorno è un dono. Sono solari, pratiche, semplici. Io ho cercato solo di renderle cool. Ma loro, davvero, sono già fighissime da sole".
Un progetto che "serve a portarcele dietro fino alla prossima generazione". Una generazione che di nuovo ha a che fare con le otto ore di lavoro (che Strasburgo ha deciso che ora sono di nuovo nove, poi forse di più). Allora, negli anni Quaranta, era un’altra fame, altri diritti, altre urgenze. Le mondine di Novi erano bambine. Nei campi si andava a dodici anni, se ne avevi trenta eri "l’anziana". Si lasciava casa per due mesi, si viveva nei capannoni, si dormiva sulla paglia. E di giorno erano tafani, schiena rotta, fango.
Il progetto Di madre in figlia porta sul palco quello che un tempo era nei campi, canzoni e lezioni di vita che le donne si passavano di mano in mano. E che c’entra poco con Riso amaro. Un film che le mondine di Novi le fa arrabbiare solo se lo nomini. Perché, come racconta nel documentario Diva, "non è vero che noi dopo si andava a ballare, come fa la Mangano. Noi non si spendeva nulla di quello che ci dava il padrone. Portavamo a casa la campagna intera". La campagna, era la paga. Per sopportare questo, le mondine cantavano. Ma a Sanremo non ci sarebbero andate, "per andare a Sanremo bisogna dar via la frittola", come diceva una di loro con una voce bellissima.
Basta ascoltarle per provare come suona oggi la parola "padrone" se uno la canta. E per rivedere un mondo: le biciclette, i campi in fiore, gli uomini gobbi che loro non avevano voglia di sposare. Forse anche un po’ di quella rabbia utile con cui hanno vissuto e cantato cinquant’anni fa. Utile perché il diritto di lavorare otto ore, non di più, non se lo sono conquistato gli operai di Friburgo ma le mondine delle risaie di Vercelli. Per loro è stato fatto il primo contratto di lavoro per otto ore e basta. "Se otto ore / vi sembran poche / provate voi a lavorar / E troverete / la differenza / di lavorare e di comandar". Non è un caso se la loro canzone più conosciuta dice proprio così.
da repubblica.it
GARGANO MAGICO
Quando, finita la sconvolta discesa di Cagnano, si aggredisce il rettilineo lanciato attraverso la vasta pianura, l’occhio è attento solo all’asfalto che sfila sotto le ruote e, ingannato dall’uniforme piattezza che nasconde persino il lago, trascura Carpino, alto sul pinnacolo di una collina, mezzo nascosto dal movimentato scenario della stretta valle tagliata come una ferita nelle pietrose profondità garganiche.
Carpino è la risultante di una gara tra fantasie anarchiche, un gioco urbanistico realizzato senza regole che alla fine, benché ciò non rientrasse nelle previsioni, ha trovato una perfetta, compiutissima unità. Veduto dalla strada statale, sembra una bizzarra costruzione cubista eretta da bambini fantasiosi con dadi variamente colorati. Si potrebbe pensare ad un villaggio di nani, costruito sulla loro misura; eppure gli uomini che lavorano nei campi sono di taglia atletica, nerboruti, bisognosi di spazio anche quando crollano per il riposo.
Infatti, di mano in mano che si sale il colle in cima al quale è arroccato il paese, le prospettive di Carpino si definiscono. Il cilindro giallo che si vedeva in lontananza è il breve torrione di un castello ora trasformato in caravanserraglio per non so quanti nuclei familiari, i cubi azzurri, gialli, bianchi sono case tutte quadrate e uguali, con terrazze, balconi, altane a livelli diseguali che si rincorrono in aeree scalinate verso il cielo.
Le strette viuzze sembrano fenditure d’ombra nella gaiezza policroma delle abitazioni e ci si arrampica con le capre camminando sotto cascate di gerani che traboccano dalle terrazze, dai davanzali di aeree finestre raggentilite da cornici di lineare eleganza, da panciuti, spagnoleschi balconi in ferro battuto. Quale immaginoso architetto ha elaborato le improvvise scenografie delle ardite scalinate, le quinte policrome di case disposte con capricciosa asimmetria per limitare la vastità del paesaggio spalancato sulla valle, chiudere nel cerchio di raccolta intimità il villaggio battuto dai venti garganici?
Contadini analfabeti, e muratori altrettanto analfabeti furono gli ignari artefici del miracolo urbanistico; le cornici essenziali che chiudono le finestre, le porte ad arco sulle facciate disadorne, l’aggetto dei terrazzi su povere case, rivelano una civiltà del gusto certo non imparata a scuola, ma dall’armonia del paesaggio in cui questa gente vive, svariante fra montagna, pianura, lago e mare. E sono ancora contadini analfabeti ad ornare con festose ghirlande di gialle pannocchie, di peperoni scarlatti, disposte con inconscio gusto della decorazione, le facciate delle case esposte al sole, a chiudere con dorati fondali di granturco i vani terminali di stradette aperte sulla vallata.
Carpino gode immeritata fama di paese insicuro. Gliela procurò un libro, tradotto in film, che ha denigrato l’intero Gargano. Il signor Roger Vailland, quando, venne in vacanza da queste parti, raccolse come autentiche ed attualissime antiche vicende sepolte da secoli. Gli uomini che siedono al rezzo sulla quadrata piazzetta dominata dalla chiesa, limitata e definita come un palcoscenico su cui la domenica sì recita la piccola sagra delle modeste vanità locali, sono diversissimi da quelli che lo scrittore francese ha abbozzato nel romanzo « La legge », divulgato poi dal film omonimo.
Nelle ore che precedono il tramonto, quando l’aria estenuata dalla calura sfiora con le prime folate fresche i tetti delle case, i carpinesi si riuniscono in piazza, quelli che non lavorano, s’intende, perché gli altri tornano dai campi a notte piena. Il campionario è completo, tutte le classi sociali del paese sono rappresentate. C’è il ricco possidente, ma senza la iattanza del feudatario; c’è il professionista, ma senza la boria del colto fra gli analfabeti; c’è il maresciallo dei carabinieri, ma non la intimidatrice autorevolezza dell’autorità costituita; c’è il manovale povero e analfabeta, ma senza la falsa umiltà del debole angariato.
Formano una comunità ben definita, non afflitta da stridenti ingiustizie sociali. Anche il ricco, quando vi indicano le sue proprietà, risulta un ben povero nababbo; i suoi poderi sono distese di pietra su cui si affannano le capre in cerca di pascolo. Però, il signor Vailland era determinato a scrivere un romanzo ad effetto sull’Italia Meridionale, e poiché altri filoni erano già troppo sfruttati, si rivolse al Gargano, ancora poco noto alle platee avide di sensazioni forti.
Un vecchio feudatario sensuale, cinico, sterminatore di vergini, spietato sfruttatore di plebi sottomesse gli andava bene per un romanzo a tinte fosche impostato sulle differenze sociali nell’Italia Meridionale. Non si può negare che condizioni simili esistano nel Sud non nel Gargano, dove il ricco autentico non esiste. Sovente la ricchezza è più stracciona della povertà, per cui è difficile distinguere l’aristocratico dal manovale. Eppure, nel romanzo dello scrittore francese non c’è un personaggio pulito; prostitute, ruffiani, pervertiti, aguzzini si rincorrono in lubrico carosello nel perfetto scenario garganico ruotando attorno al tema di un vecchio gioco ormai in disuso, appunto « La legge ».
E’ un vecchio, abusato cliché cui ci ha abituati la letteratura sull’Italia Meridionale, ma il Gargano non può entrare nel gusto di scrittori criminal-folcloristici proprio perché nella sua storia non ci sono tradizione fosche. La gente è pacifica, di indole mite, forse un po’ pigra, aliena dalla violenza e dal delitto. Sono uomini di scorza ruvida, spinosi come i giganteschi fichi d’india che crescono nella pianura spalancata verso il lago, forse inclini a mettere le mani su piccole cose che non gli appartengono; capre, giumente, muli sorpresi liberi nel pascolo. Dopo averli conosciuti, si comprende che sarebbero generosi, ospitali, se lo potessero. Non potendo offrire altro, diventano amici di chi li avvicina, persino fastidiosi nelle manifestazioni di eccessiva cordialità non sempre disinteressata.
Bellissimo e scenografico, Carpino è forse il villaggio più povero del Gargano, con poca terra da coltivare, assai lontano, nella pianura sconfinante col lago di Varano, con greggi di capre sparse a brucare la scarsa erba sui petrosi pascoli della montagna. Se gli uomini fossero nati inclini alla violenza, nessuno se ne sarebbe stupito; l’ambiente e le condizioni in cui vivono li avrebbero giustificati.
Invece, come tutti i garganici, sono duri solo in apparenza, subito sciolti con coloro che cercano di comprenderli.
Giocano ancora alla « Legge »? Sì, giocano ancora, ma non nei modi con cui li ha descritti Roger Vailland. Si riuniscono in cinque o sei nell’osteria, ordinano alcune bottiglie di vino, o di birra, ed incominciano a puntare con le dita, chiusi in un cerchio di complicità impenetrabile. Si direbbe che congiurino, e giocano soltanto una specie di morra per eleggere il capo, colui che detterà legge. Egli ha il diritto insindacabile di far bere il vino, o la birra a chi vuole lui, mentre tutti gli altri pagano.
Una sola seduta mi convinse che « la legge » è un gioco noioso per chi, come me, non sa penetrare nell’atmosfera di mistero che i giocatori creano, senza comprendere che quel gioco può essere, per alcuni, l’occasione di bevute gargantuesche quasi gratuite. Inoltre, c’è il piacere della beffa, il sorriso agro degli esclusi, la gioia di risate irrefrenabili quando qualcuno si ribella alla « legge ». E’ un gioco molto diffuso nel Meridione, chiamato talvolta passatella, talvolta tocco, talvolta legge.
Un tempo, chi era eletto capo della piccola assemblea di bevitori, aveva il diritto di offrire il bicchiere a chi voleva, ma anche di processarlo dicendogli tutto ciò che pensava di lui, di sua moglie, dei suoi figli, delle sue sorelle, salvato dall’immunità che gli derivava dalla sua condizione di capo. Accuse di furto, adulterio, violenza carnale, pecoraggine erano pronunciate a mezza voce nel fumoso stanzone dell’osteria: cadevano come macigni sull’accusato cui il vino ricevuto dono si trasformava in fiele. Ma nessuno osava ribellarsi, quella era la legge.
Ciò accadeva un secolo addietro, anche i più anziani ne ricordano le movimentate notti invernali trascorse nel gioco della « legge », trasformatosi ora in modesto antagonismo bibitorio. Sempre più raramente, distratti da altri intere (il cinema, la televisione, una certa facilità di amoreggi con le ragazze), si seggono attorno al tavolo, eleggono il capo e attendono la designazione col pomo d’adamo che gli guizza sotto la pelle del collo, tutti in succhio nella speranza di bere quasi gratuitamente alcuni bicchieri di vino.
La sera quando gli uomini tornano dal lavoro nei campi, il palcoscenico della piazzetta si anima d’improvviso. Seduti sui bassi scranni, gli anziani che hanno trascorso le ore in silenzio, cacciando con pigre mani la molestia aggressiva delle mosche, si risvegliano dal letargo per commentare la vita di tutti coloro che sfilano sotto i loro occhi distratti, uomini di pelle scura, conciata e arrostita dal sole, gli sguardi allucinati dal lungo riverbero luminoso, la schiena stroncata dalla fatica della mietitura.
Nelle ore torride della canicola Carpino sembra un paese ubbriaco di luce, un paese stordito dalla vampa, reazioni con le viuzze deserte e la piazza devastata dal spietato. Sono le ore che preferisco in questo fantasioso villaggio, mi eccita il pensiero di camminare sul sonno della gente abbandonata alla siesta, fra le galline che chiocciolano razzolando fra la spazzatura della strada, fra gli asini legati al muro e con le frange inerti a sfiorare il suolo.
Tutto è immobile nella luce arroventata, il silenzio è profondissimo, il ronzìo delle mosche instancabili rimbomba con fragore. Da un’altana, dal terrazzo di uno scoglio, l’occhio ha tutto l’orizzonte per sé, domina la dilagante pianura gonfia di umori caldi. Dal torrioncino di pietra gialla del castello, su cui sventola l’afflitto pavese di povera biancheria intima stesa ad asciugare, il lago di Varano appare come sommerso dalla cateratta di luce che crolla dal cielo sterile.
L’acqua si stempera in tonalità grigio-azzurre, diversificandosi dall’Adriatico non per il sottile istmo di sabbia gialla ma per il variare dei colori; verde fondo il mare, grigio spento il lago.
Tra i campi gialli di stoppie, le cicale si eccitano stridendo con frenesia monotona, ubbriache di sole. Splendono i pomidoro come vampe nell’aria infuocata; sulle pale immense dei fichi d’india, un freddo metallico che non dà ristoro all’occhio abbacinato, gonfiano i frutti spinosi, grossi, polposi, dolcissimi.
Folgorato dal sole, Carpino attende il brivido delle prime ombre serali per ridestarsi; allora il «Caffè Vittoria» e la piazza incominciano a popolarsi per i quotidiani, pigri pettegolezzi, cui il cantilenante dialetto toglie ogni asprezza.
Dopo tanto sole, non si ha più l’energia necessaria alla cattiveria autentica; gli antagonismi, le avversioni, si esauriscono in placata maldicenza, tutti hanno coscienza di essere simili agli altri nei difetti e nelle qualità, di condividere un destino poco benevolo che tutti eguaglia.
Carpino è un paese bellissimo e malinconico. Qui nessuno canta, nemmeno le donne che al tramonto, strette nell’ombra avara delle case basse, rammendano panni lavati e rattoppati fino allo spasimo. L’esistenza non è gioconda per questi uomini, persino le cantilene per addormentare i bambini sembrano tramate di pianto; echeggiano la tristezza congenita di questa gente che ha come scenario il fantasioso villaggio arroccato sul pinnacolo di una collina battuta dal vento e folgorata dal sole.
Sono nenie che parlano di morte già vicino alla culla, una preparazione all’esistenza dura, quasi disumana, da incominciare subito; coloro che sono appena giunti devono abituarsi presto alla realtà della fatica tremenda cui, per sopravvivere, saranno dannati nel paesaggio di struggente seduzione, ma ostile all’uomo.
Antonio Piccininno Cantatore e Raccoglitore dei Canti Popolari di Carpino
Antonio Piccininno, Piccëninnë, nasce il 18 febbraio 1916 a Carpino, in provincia di Foggia. Pastore e, contadino, con le sue novantadue primavere rappresenta, oggi come oggi, una delle personalità più interessanti, autentiche e complesse della tradizione musicale del Gargano. Cantatore eccellente, tra i più anziani del paese, porta con sé un bagaglio di conoscenze che lascia quale eredità culturale alle nuove generazioni. La sua testimonianza di vita, la sua interpretazione canora e la sua raccolta di canti sono punti di riferimento imprescindibili per un’adeguata comprensione della sua unicità. Il suo percorso si colloca in un ambito intermedio tra oralità e scrittura, frutto di stratificazioni in progress di apprendimento, dalla fase mnemotecnica orale del periodo giovanile, alla fase della partecipazione diretta ai riti collettivi delle serenate e dei balli (quando non ancora defunzionalizzati), alla fase dell’appropriazione autodidattica della scrittura per la raccolta dei canti popolari.
Questo libro vuole essere un omaggio di chi l’ha frequentato con amicizia per quasi un quarto di secolo. Al suo interno sono stati riportati i manoscritti originali della sua autobiografia e del suo ultimo quaderno di raccolta dei canti popolari di Carpino. Allegato un CD musicale con 38 brani della tradizione carpinese da lui interpretati tra cui la ninna nanna, sonetti d’amore e di disprezzo nelle varie forme di tarantella, il canto religioso del Venerdì Santo (in cui Piccininno canta e si accompagna con la chitarra francese).
BRANI CD
01. Ninnë ninnë ninnë ninnë nanno (2:48)
2. Accomë j’èja fa’ p’amà ’sta donnë (2:25)
03. Rosa roscë e culurita bellë (1:29)
04. Turtarellë che ha persë lu cumpagnë (1:34)
05. Lucë lu solë quannë iè bontempë (1:48)
06. Ejë camënatë lu munnë a palmë a palmë (1:38)
07. Cë sta ‘na donnë a qua fa li cavzettë (1:58)
08. Che stratë alluttë alluttë Nënnella bellë (1:50)
09. Donnë che sta’ ‘ffacciatë a ‘ssa fënestrë (1:44)
10. Tridëcë stellë portë la Puddarë (2:26)
11. Bellë che da Napëlë songhë vënutë (1:47)
12. Non m’importë che si’ piccolë ma si’ bellë (1:43)
13. Vurrijë dëvëntà nu pazziarillë (2:20)
14. Allu spuntà lu solë veji ‘na donnë (2:38)
15. J’èjë truatë la stratë dëlla fatë (2:07)
16. Nu jurnë më në jittë marë marë (1:43)
17. Fënestrë falla tu l’ammasciatorë (1:29)
18. Sopë a nu montë javtë jescë lu solë (1:30)
19. Mille bongiornë a te primë arruuatë (2:58)
20. Che dei Nënnellë che të vejë afflittë (2:23)
21. Stënuccë dëllu corë tu si’ l’affettë (1:43)
22. Nu jurnë andajë a caccià ‘na donna unestë (1:49)
23. Questë iè la stratë dëllu nobëlë fiorë (2:09)
24. Vidë quantë n’èji vistë ‘sta matinë (1:50)
25. Puntë songhë arruuatë a ‘stu palazzë d’orë (1:44)
26. Nënnellë che bellu sonnë songhë sunnatë (1:35)
27. Bella donnë che sta’ javtë a supranë (1:48)
28. Rëndënellë che spacchë lu marë (2:04)
29. Alla larghë alla larghë tuttë a qua ‘tturnë (1:47)
30. Vidë che bella lunë che belli stellë (1:20)
31. Occhji nerë capillë castagnazzë (recitato) (1:16)
32. Occhji nerë capillë castagnazzë (1:47)
33. Saccë nu sunettë alla traversë (1:39)
34. Vurrijë che chiuvessë maccarunë (1:59)
35. Nu jurnë andajë a caccià li cardillë (1:57)
36. E jè Vënardija Sandë (3:44)
37. Faccë dë rumungellë ‘ngiallanutë (1:22)
38. Omënë pë’ femënë ji songhë natë (2:06)
Per contatti:
Centro Studi Tradizioni Popolari del Gargano e della Capitanata
Via Gioielli n.15 – 71010 Rignano Garganico (Foggia)
Cell. 333/2308282- E-mail: info@folkloregargano.com
HARP TO HARPS
FESTA DI PRESENTAZIONE CD
2 Dicembre 2007 ore 18.30
CAFFE’ LETTERARIO
Via Ostiense 95
ROMA
HARP TO HARPS
HARP TO HARPS è il nuovo CD di Giuliana De Donno realizzato con il contributo IMAIE e prodotto da Lincoln Almada per Twilight Music.
L’affascinante viaggio nel mondo dell’arpa compiuto in questo lavoro discografico racconta una piccola parte di storia dello strumento attraverso l’arpa Irlandese (Celtica), Sud-Americana (Paraguayana), Italiana (Viggianese) e Classica moderna.
Oltre ad avere un carattere storico, il progetto musicale nasce anche dall’esigenza di reinterpretare con libertà e fantasia, brani del ricco repertorio della tradizione popolare e classica : il Barocco musicale irlandese con il Concerto di O’ Carolan, quello Ispano-sud-Americano con la Paradetas di Ribayaz e quello classico con la Sarabanda di Couperin e la Toccata di Paradisi; il Romanticismo con la trascrizione per arpa classica della Serenada Granada dello spagnolo Albeniz; l’antico repertorio musicale dell’area Celta del nord-Europa con Baltiorum, Gaelic waltz, the Knappogue medley ed inoltre la tradizione popolare del sud-Italia con Tarantella Capuanese e Tarascone e quella del sud-America con recenti composizioni che attingono dal passato, come Pampalirima, Merengue rojo, Villavicencio e Milonga par amar.
Nella serata di presentazione della prima uscita di HARP TO HARPS, Giorgio Verdelli racconterà insieme a Giuliana, le immagini, i suoni e le emozioni che hanno ispirato questo affascinante viaggio musicale.
In anteprima assoluta Giuliana suonerà, nel corso della serata, un’arpa originale Viggianese dell’ ‘800, fresca di restauro : si tratta di uno dei pochi esemplari di questo strumento riportato al suo antico splendore e che vanta un posto di riguardo nella storia della musica popolare Italiana e Lucana.
Suoneranno insieme a Giuliana gli ospiti che hanno collaborato al cd :
Lincoln Almada (arpa paraguayana)
Arnaldo Vacca e Massimo Cusato (percussioni)
Raffaello Simeoni e Clara Graziano (organetti)
Marco Tomassi (zampogna)
Elena Somarè (fischio)
E’ stato lungo il cammino che ha portato al nuovo album di inediti dei Radiodervish, L’immagine di te, preceduto dal singolo omonimo che ronza nell’aria da qualche settimana.
Un lavoro che arriva sei anni dopo Centro del Mundo, ancora oggi un gioiello del pop italiano più obliquo e meno massificato, e a tre da In search of Simurgh , che era invece un concept che prendeva le mosse da un poema mistico-filosofico della cultura persiana del ‘300.
Nel mezzo, l’omaggio a Domenico Modugno della particolare Amara terra mia, una lunga attività live, praticamente senza interruzioni, e la definizione di un ensemble praticamente stabile intorno alla voce di Nabil ed alle chitarre di Michele Lobaccaro, con Alessandro Pipino alle tastiere, Anila Bodini agli archi e Antonio Marra tra batteria e percussioni varie.
«Volevamo recuperare – dice Michele – un linguaggio musicalmente pop che fosse immediatamente comunicativo, cercavamo leggerezza senza perdere in complessità. Alessandro Pipino si è aggiunto naturalmente a noi due nel processo creativo, mentre alla fine, col materiale già registrato e arrangiato, è emersa la necessità di trovare linguaggi forse non esattamente nelle nostre corde. Così è venuto naturale rivolgerci a produttori d’eccezione come Franco Battiato e Pino Pinaxa Pischetola». Già il titolo sembra contenere la suggestione dell’album, il tema attorno al quale ruota «L’immagine di te».
«E’ vero, quell’immagine ha un senso allargato, sottintende anche al nostro cambio di immagine da duo a gruppo assestato.
Ed è vero che ci piace giocare intorno ad un vecchio detto arabo che dice più o meno che la verità è uno specchio caduto e frantumato. Ognuno crede che il frammento che ha raccolto rimandi l’immagine della verità ed invece la verità è solo l’insieme di tutti quei pezzi sparsi. E il tema del doppio è sempre affascinante». E musicalmente, da dove siete partiti, per approdare dove? «Volevamo uscire dallo stereotipo che ci relegava un po’ nelle categorie esotiche, etniche. Pensiamo semplicemente ad una musica contemporanea per una società che cambia, sempre più aperta al mondo, al nuovo, al diverso da sè. Un primo passo per la nuova musica italiana».
Caparezza, Alessia Tondo. due collaborazioni che segnano l’album.
«Quello con Caparezza – spiega Nabil – non è stato un incontro immediato, anche se ne parlavamo da tempo. Poi invece, quando Michele ha preso a muoversi nel suo mondo all’interno del mondo Radiodervish, tutto è fluito naturale. E Babel è già passata per esempio nella selezione radio di Alessio Bertallot, che è sempre attentissimo al nuovo. Quanto ad Alessia, benché giovanissima, (ha solo 16 anni) ha un talento che è impossibile non notare. La traduzione in griko di Yara è venuta da Gianni De Santis e siamo molti soddisfatti del risultato» .
Ma com’è la vita da italiano (Nabil ha ottenuto la cittadinanza da poche settimane)?
«Lo shock più grande è stato veder strappato sotto i miei occhi il permesso di soggiorno, che per 25 anni è stato il mio unico strumento di salvezza, come per tutti gli immigrati – conclude Nabil – Non ho ancora ben messo a fuoco il mio status, so solo che è la prima volta che io, palestinese nato profugo in Libano, ho un’identità precisa: cittadino italiano ed europeo.
Non è facile, per chi nasce in un paese radicato e libero, capire cosa significhi, ma io lo so bene e non potrò mai dimenticarlo».
Dal canto ai rumori dell’aratro, le registrazioni di Gianni Bosio in un libro sorprendente, «1968: una ricerca in Salento. Suoni grida canti rumori storie immagini, a cura di Luigi Chiriatti, Ivan Della Mea e Clara Longhini», con tre Cd. Il volume sarà presentato il 1 ottobre, alle 17,30 al Circolo Gianni Bosio. Per l’occasione, una mostra delle foto di Clara Longhini e Alan Lomax. A seguire, un intervento musicale dei Malicanti
Alessandro Portelli
All’inizio di agosto del 1968, Gianni Bosio e Clara Longhini sono a Lecce. Sono in vacanza in Salento ma (come negli anni seguenti in Calabria, Sicilia e Sardegna) la vacanza è un viaggio di ricerca e di scoperta, con registratore, macchina da presa, diario di lavoro. Il mercato di Lecce, annota Clara Longhini, non ha niente di speciale. Persino le grida dei venditori sono assenti o deludenti. E allora, invece di spegnere il magnetofono, Bosio fa una cosa insolita: allarga il campo e registra il vocìo, i rumori del traffico, il «paesaggio sonoro» della città. Un gesto che sottolinea la trasformazione da lui immessa nella ricerca sul campo: non solo i materiali codificati, le forme riconosciute (le grida dei venditori) ma un contesto ampio, di cui ancora non riconosciamo le forme (e che magari non ne ha) ma che cominciamo a documentare per poterci ragionare in futuro. Qualche anno prima, così era cominciata la ricerca in città: con il registratore a un angolo di strada a Milano, fissando il suono della metropoli.
Il luogo è importante (un Salento ancora non di moda) ma lo è anche il tempo: siamo nel 1968, mentre mezzo mondo sta sulle barricate Gianni Bosio sta a Otranto, Martano, Calimera, Lecce, e registra cose apparentemente lontanissime, in realtà il sostrato profondo dei sommovimenti visibili. Poi – annota Clara Longhini – siccome è in vacanza, si siede sotto l’ombrellone con le gambe al sole e si scotta perché è troppo immerso nella lettura di un libro affascinante: il Capitale di Marx.
La storia di quei diciassette giorni è adesso in un libro elegante e sorprendente 1968: una ricerca in Salento. Suoni grida canti rumori storie immagini, a cura di Luigi Chiriatti, Ivan Della Mea e Clara Longhini (Kurumuny, Calmiera-Lecce, 2007, pp. 347 e tre Cd audio, 25 euro). Naturalmente, Bosio e Longhini non raccolgono solo rumori e paesaggi sonori, ma anche molte storie e moltissima musica. Come già nelle precedenti registrazioni di Lomax e Carpitella, c’è un poco di pizzica (alla festa di San Rocco a Torrepaduli ascoltano «una movimentata tarantella napoletana, definita localmente pizzica») e tante altre espressioni di una cultura materiale, linguistica, musicale tutt’altro che unidimensionale e consumabile. Di questi nastri, avevo sentito solo il lacerante lamento funebre di Angela Bello a Otranto. Adesso, mi affascina ascoltare – cantata dalla figlia di Angela che l’ha imparata dalla madre – una bella versione del Testamento dell’avvelenato, una ballata che circola dall’Italia alla Scozia agli Stati Uniti (io l’ho sentita da immigrate calabresi in una borgata romana) e da Angela Bello a Bob Dylan e Harry Belafonte. Ma il momento più alto è la completa registrazione del canto di passione grecanico, I passiùna tu Cristù, eseguita da cantori e suonatori che ritroveremo trent’anni dopo in uno splendido disco delle edizioni Aramirè (anche a questo servono le registrazioni: a vedere che cosa resta e cosa cambia, nel canto e nei cantori, nel corso del tempo). Raramente una performance di tradizione orale ci è stata restituita con tanta accuratezza documentaria, degna erede dell’acribia filologica di Gianni Bosio: comprende la registrazione sonora, che occupa un intero Cd, l’analisi musicologica e la trascrizione musicale curate da Ignazio Macchiarella, nonché la trascrizione e traduzione del testo affiancate dalla riproduzione anastatica del manoscritto del cantore Salvatore Russo. Al centro del libro stanno le fotografie di Clara Longhini (che insieme col diario danno la misura di quanto sia stato importante il suo contributo, spesso misconosciuto, all’intero progetto di ricerca del Nuovo Canzoniere Italiano e dell’Istituto Ernesto de Martino). Come le registrazioni a microfono aperto, anche le fotografie sono il risultato di uno sguardo ad ampio raggio: i visi e le posture dei cantori e dei narratori, ma anche le luci della festa, gli affreschi bizantini, le processioni, i vestiti, un asino bardato, i contesti di lavoro. Mentre Bosio registra i suoni dell’aratura – il canto, ma anche la campanella, gli incitamenti al cavallo, gli scricchiolii del carro e dell’aratro – Clara lo accompagna con una sequenza di immagini, che ci aiuta a capire il senso dei suoni.
Proprio la registrazione di Martano induce Bosio a una serie di riflessioni raccolte nel saggio incompiuto che conclude il libro, sull’importanza della relazione fra performance, funzione e contesto. Sono annotazioni autocritiche rispetto alle precedenti esperienze del Nuovo Canzoniere e dei Dischi del Sole, ipotesi di nuovi approcci e progetti di nuovi lavori. Purtroppo, poco di tutto questo si poté realizzare. Tra i motivi ricorrenti nel diario di Clara Longhini, infatti, ci sono i limiti che le ristrettezze finanziarie impongono a una ricerca condotta fuori degli schemi istituzionali e mercantili: lei che ha finito i rullini proprio mentre inizia la danza-scherma a Torrepaduli, Bosio che contravviene alla sua norma fondamentale e ogni tanto, per risparmiare sul costosissimo nastro, spegne il registratore. È un po’ una metafora delle difficoltà che il movimento fondato da Bosio sperimentò in tutta la sua esistenza e che si veniva accentuando, paradossalmente, proprio in quegli anni di ripresa del movimento. Anche perciò, ci sono voluti quasi quarant’anni perché i materiali vedessero la luce. Forse, se fossero usciti allora, tanti equivoci ce li saremmo risparmiati.
Nel 2005, Clara Longhini torna in Salento. Molte cose sono cambiate: «Non ci sono più animali nei campi. Buona cosa, certo, ma…» Ma qualcosa si è perso. Nel suo diario, pubblicato qualche anno fa dalle edizioni Aramirè, Luigi Stiffani, il violinista delle tarantate, parlava della scomparsa di altri animali: adesso, diceva, il ragno che avvelenava le tarantate non c’è più, perché nei campi ci sono tanti veleni nuovi e anche quelle bestiole sono scomparse. Al dolore che si esprimeva nel tarantismo si sostituiscono veleni e sofferenze irriconoscibili, perché spesso nascoste sotto la maschera del progresso.
CANZONI D’ONORE, SANGUE E OMERTÀ
Le feste religiose in Calabria sono un’occasione importante per ascoltare la musica.
Molti suonatori vi si recano, portando con loro gli strumenti musicali tradizionali. Durante le feste si suona e si balla, si ascolta suonare e si guarda ballare. La musica poi si puó anche comprare. Una presenza presenza costante alle feste é infatti quella del venditore ambulante di musicassette, che offre la sua merce su una bancarella. In contenitori di legno sono esposte le copie dei piú recenti successi della musica pop e raccolte degli anni ’60 e ’70.
In tutte le bancarelle c’é inoltre un settore dedicato alla musica tradizionale calabrese.
All’interno di questo settore, guardando bene, si trovano anche le canzoni della ’ndrangheta.
La vendita di prodotti dedicati alla ’ndrangheta ha suscitato recentemente dibattiti e polemiche in Italia e altrove. Il fenomeno é stato valutato inquietante per l’aperta rivendicazione dei „valori mafiosi“ che alcune canzoni contengono, ma anche poco interessante in quanto le canzoni non sarebbero, per alcuni, che una semplice parodia del comportamento „malandrino“.
Le cose sono un po’ piú complesse…continua nei commenti.
Goffredo Plastino (Professore di musicologia dell’Universitá di New Castle)
Per informazione www.malavita.com
La Repubblica, Martedí 22 Novembre 2005
CD con canti di mafia
Il caso
"Infama Vinditta", "Vendetta d’Onuri", "Ammazzaru lu Generali": sono i titoli di alcune canzoni ispirate alla ’ndrangheta, che fanno parte del CD "Le Canzoni dell’Onorata Societá" pubblicizzato sul sito internet http://www.malavita.com. La vicepresidente dell’Antimafia Angela Napoli ha annunciato un’interrogazione a Pisanu perché valuti la possibilitá di ritirare il CD "perché se non interveniamo é ovvio poi che alcuni giovani diano giudizi positivi sulla criminalitá organizzata".
Un appassionante viaggio in Italia, dal Piemonte alla Sicilia, alla ricerca di quanti hanno saputo salvare la tradizione, reinterpretarla e innovarla, mantenendo viva l’eredità dei padri. Da Amerigo Vigliermo e il Coro Bajolese del Canavese a Turi Grasso e l’Opera dei Pupi di Acireale, da Uccio Aloisi, il patriarca della pizzica salentina, al Gruppo Spontaneo di Magliano Alfieri, dai poeti-pastori dell’Alto Lazio ai Cantori di Carpino, un susseguirsi di dialoghi che costituiscono allo stesso tempo un racconto a più voci della straordinaria ricchezza di espressioni musicali e culturali che attraversano la provincia italiana. Promosso dal Comitato Festival delle Province, i "Testimoni della Cultura Popolare" è il premio che ogni anno viene conferito a uomini, gruppi ed esperienze che, come fragili ma tenaci "biblioteche viventi", sono impegnati nella valorizzazione di antichi saperi, forti di un rapporto profondo con i territori e le comunità di appartenenza e votati a tramandare alle generazioni successive il lascito del loro impegno. Con scritti di Gian Luigi Bravo e Carlo Petrini, presidente di Slow Food, i testi con traduzione dei brani musicali contenuti nell’allegato cd e un consistente apparato fotografico, la rappresentazione dinamica di un eccezionale mosaico di sonorità e culture, tra pizziche e stornelli, canti in ottava rima e cori polifonici.
Valter Giuliano Giornalista e storico dell’ambiente, tra i promotori del movimento ecomuseale in Italia, è Presidente del Comitato per il Festival delle Province nel cui ambito sono stati istituiti il "Premio per i Testimoni della Tradizione e Cultura Popolare" e le "Cattedre ambulanti della Tradizione e Cultura Popolare".
Ricordiamo che l’Associazione Culturale Carpino Folk Festival è stata indicata dalla Provincia di Foggia quale sua rappresentante nel Comitato per il Festival delle Province.
L’unica etichetta di popular music attiva a Cremona, “città della musica”, dopo l’ottimo ritorno sulle scene discografiche dello storico gruppo I Giorni Cantati di Calvatone, documenta l’esperienza di una giovane band originaria del Salento, terra salita in anni recenti alla ribalta delle cronache del folk (e non solo).
I Khaossia, sestetto che tradisce sin dal nome la sua vocazione ‘world’, prende spunto dal fenomeno dell’emigrazione per collegare idealmente l’esperienza di alcuni dei suoi musicisti, trapiantati a Cremona per frequentare la facoltà di Musicologia, a quella di Ignatius Jerusalem, maestro di Cappella del Settecento che dalla nativa Lecce emigrò per affermarsi in Messico come compositore di musica sacra.
Luca Ferrari