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Svastiche greche a Monte Sant’Angelo

Alcuni mesi fa, noi del Team Archeo – Speleologico ARGOD scoprimmo una nuova Triplice Cinta Sacra sulla facciata anteriore della Chiesa di Santa Maria Maggiore a Monte Sant’Angelo. Per il gruppo si trattò della terza Triplice Cinta scoperta, dopo quella del Castello di Peschici e dell’Abbazia di CàlenaPoco tempo dopo, ad una ulteriore perlustrazione effettuata all’adiacente Tomba di Rotari, Battistero dedicato a San Giovanni, una nuova e sensazionale scoperta: due svastiche incise in un punto poco visibile nel cortile esterno della struttura, vicino alle basi delle quattro colonne di granito. Non svastiche qualsiasi [Fig.1], ma di una ben precisa cultura: Greca!


Fig. 1 Una delle due svastiche greche scoperte nel cortile della Tomba di Rotari.

Ebbene sì, due svastiche di indiscussa tipologia greca [Fig.2] incise in un sito ricco di simbologie rare. 

Fig. 2 Una delle due svastiche greche scoperte nel cortile della Tomba di Rotari.


Lo studio dei simboli percorre strade tortuose e complicate. Strade che spesso sembrano non condividere nulla, ma che inaspettatamente s’intersecano per svelare indizi sconcertanti, da cui poi si dipartono altre strade che alimentano la complessità della ricerca. Il mondo accademico affronta la simbologia con distacco e scetticismo, poiché affetta da troppe variabili, carente di documentazione, viziata da soggettive e variegate interpretazioni, ma soprattutto perché non univocamente identificabile. In pratica, ad oggi, non è stata ancora fondata una giusta metodologia scientifica per lo studio dei simboli.E’ anche vero, però, che la forza di un simbolo sta nel fatto di rivelare non una verità, bensì un concetto, che tanto più si sveste di segretezza tanto più alto è il grado di conoscenza e consapevolezza dello studioso che tenta di decrittarlo. Una conoscenza semplice e diretta, nella sua forma, che riesce a resistere allo scorrere dei secoli molto più di qualsiasi documento scritto, monumento o reperto archeologico, ma che se studiato, contestualizzato e soprattutto capito, riesce a dare una quantità considerevole di informazioni.

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Gargano….Monte Sacro

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Monte Sacro -Gargano from ventura talamo on Vimeo.

Nuovo sequestro di reperti archeologici

I militari della Brigata della Guardia di Finanza di Rodi Garganico, all’esito di specifici controlli, hanno rinvenuto, su un’area di interesse archeologico, nr.108 reperti risalenti al IV – VI secolo a.c. di epoca dauna. I reperti erano gia’ pronti per essere trafugati da parte di malintenzionati nello specifico, tra i resti figurano:

nr. 18 pezzi di vasellame interi e ricostruibili;•    nr. 07 fibule e oggetti ornamentali/monili in bronzo;
•    nr. 05 punte di lance/coltelli;
•    nr. 78 pezzi di frammenti di vasellame vario.

I particolari dell’operazione saranno resi noti nel corso di una Conferenza Stampa che si terra’ alle ore 12,00 odierne presso la sede del comando Brigata della Guardia di Finanza di Rodi Garganico – via C. Colombo, 2.

La grotta stregata dall’ oro del brigante

Nel Gargano il bottino di Jalarde rimane inviolato ma torna alla luce un tesoro di resti preistorici La serie «Amori e misteri» si conclude nelle profondità della Puglia, nella grotta Paglicci a Rignano Garganico dove nell’ Ottocento il brigante Briele Jalarde avrebbe nascosto il suo bottino. Un tesoro cercato per decenni anche con l’ esplosivo, sfidando le leggende sulle presenze demoniache. Ma quella caverna custodiva un altro tesoro, riportato alla luce dalle campagne di scavo degli archeologi: utensili, armi di pietra, incisioni e affreschi risalenti a ventimila anni fa. Per decenni un uomo lo ha cercato, anche con la dinamite

 

RIGNANO GARGANICO (Foggia) – Aveva la faccia scura come quella di un carbonaio, lo sguardo torvo e un’ idea fissa: il tesoro nascosto nella grotta. E per trovarlo aveva una mappa che indicava il luogo dove un brigante dell’ Ottocento aveva sepolto un baule pieno d’ oro. Gliela aveva data un compagno di cella mentre si trovava in galera e quando per lui era arrivata la fine della pena, l’ altro – che non sarebbe mai tornato libero – decise di rivelargli quel segreto che valeva davvero un tesoro. Dovevano essere gli anni Trenta del secolo scorso quando Leonardo Esposito uscì dal carcere con in tasca quel pezzo di carta e un pensiero solo: andare a Rignano Garganico, cercare la Grotta di Jalarde (Grotta Paglicci), trovare il punto preciso e scavare. A otto metri di profondità – gli aveva detto l’ ergastolano – c’ era il tesoro del brigante Briele Jalarde (Gabriele Galardi), che negli ultimi decenni dell’ Ottocento aveva scorazzato rapinando e uccidendo fino ad ammucchiare una vera ricchezza. Che nascose in quella grotta, dove andava a rifugiarsi con la sua banda. Poi erano arrivati i Piemontesi e come tanti briganti meridionali anche Jalarde era finito in galera. Anno dopo anno i sogni di libertà e di tesori da recuperare erano svaniti nel nulla e così il brigante decise di confidare il suo segreto a qualcun altro che anni dopo, sempre in galera, lo regalò a Esposito. Appena libero Esposito s’ arrampicò sui gradoni calcarei del Gargano sentendosi già ricco come un re. Nella sua mente brillavano monete, collane, calici, anelli, bracciali; tutti d’ oro naturalmente. Ma le cose si rivelarono più complicate del previsto. Scavò nel punto indicato dalla mappa, poi un po’ più in là, un po’ più a fondo. Niente. Riprese a scavare, sbriciolò a mazzate macigni da far paura, spostò mucchi di terra alti come montagne, scavò gallerie come una talpa. Niente. Per settimane e mesi, finché estati e inverni cominciarono a rincorrersi anno dopo anno. Niente. Esposito capì che a forza di braccia non ce l’ avrebbe mai fatta. Così ricorse alla dinamite e cercò di sbriciolare quella montagna di pietra con botti che facevano tremare mezzo Gargano. In quegli anni fu tutto un andare e venire da Sannicandro, dove abitava con la famiglia, per accumulare picconi, micce, polvere da sparo, corde, candele, dinamite, torce e mazze. Passavano gli anni e Esposito era sempre lì a frugare sottoterra, mentre pastori e contadini ridacchiavano di quell’ uomo nero come un diavolo che cercava un tesoro che forse non c’ era nemmeno. Ma altri dicevano che aveva trovato un Crocefisso, che nessuno aveva mai visto, ma era grande così e tutto d’ oro. «Nel 1960, quando arrivai alla Grotta Paglicci col collega Franco Mezzena – racconta Arturo Palma di Cesnola, archeologo dell’ università di Siena e specialista di preistoria – trovammo Esposito al lavoro. Ci disse che cercava asparagi, anche se dappertutto si vedevano i danni dei suoi scavi. Un anno dopo il professor Francesco Zorzi, direttore del museo di storia naturale di Verona, cominciò le ricerche all’ interno della grotta incontrando strati molto ricchi di materiale preistorico. Ma nessun tesoro». Era l’ inizio di una grande scoperta che in quasi mezzo secolo di ricerche ha fatto di Grotta Paglicci uno dei «santuari» della preistoria italiana. «I guai con Esposito cominciarono subito – continua Palma di Cesnola -. Lui era convinto che noi cercassimo il suo tesoro e per questo, appena possibile, distruggeva le nostre trincee di scavo. Non c’ era modo di fermarlo e allora Zorzi lo assunse come scavatore in modo che vedesse coi proprio occhi che noi cercavamo schegge di pietra, frammenti d’ ossa e non il tesoro del brigante. Ma l’ espediente non servì. Appena noi ce ne andavamo, lui riprendeva a scavare in proprio. Quando nel 1971 io assunsi la direzione degli scavi e i lavori ripresero, cominciò un braccio di ferro estenuante – ricorda Palma di Cesnola -. Esposito doveva avere più di sessant’ anni, ma era instancabile: lui distruggeva le nostre sezioni di scavo, io riempivo i cunicoli che lui scavava. Una lotta senza fine. Finché un giorno venne a farmi una proposta: "Tu hai i soldi e gli operai, io ho la mappa. Mettiamoci d’ accordo e facciamo a metà dal tesoro". Il mio rifiuto non lo scoraggiò affatto. Anzi, con tre compari fissati come lui, scavò un pozzo profondo otto metri e con la dinamite fece crollare il tetto della grotta. Era il 1972 e ricordo quell’ anno come quello di un disastro». A quel punto l’ archeologo chiese l’ intervento dei carabinieri che in un paio di occasioni misero Esposito in galera per «impiego non autorizzato di esplosivi». A ogni amnistia, però, usciva di galera e ricominciava. Ma con sempre meno lena perché a forza di comprare esplosivi e non fare altro che cercare il tesoro, aveva dovuto vendere un po’ di terra che aveva e s’ era ridotto sul lastrico. Oggi a Rignano qualcuno è pronto a giurare che il tesoro è ancora lì. E molti l’ hanno anche cercato. Un anziano signore ricorda qualcosa. «Sono passati più di cinquant’ anni – dice cercando tra i ricordi con qualche prudenza -. Tre compari di Rignano fecero venire un tale da Bari con un librone dove c’ era scritto il modo di far parlare i diavoli. L’ uomo disse che dovevano trovarsi davanti alla grotta portandoci anche una ragazzina "innocente". Per questo uno dei tre si presentò con una figliola, poco più che una bambina. L’ uomo la ipnotizzò e sparse nella grotta tanti foglietti numerati. A quel punto l’ "innocente" disse che vedeva una cassa piena d’ oro sotterrata proprio vicino al foglietto col 70. I tre compari e il mago entrarono nella grotta – prosegue il mio informatore – e accesero delle candele per mettersi a scavare, ma sentirono un lamento profondo e un soffio d’ aria spense i lumi. Tutti scapparono. Il mago si arrabbiò molto e disse che qualcuno di loro non aveva seguito le raccomandazioni che lui aveva fatto. Infatti si scoprì che uno dei tre paesani aveva all’ interno della coppola un’ immaginetta della Madonna col Bambino e questo aveva fatto arrabbiare il Maligno. Così il tesoro non venne trovato e il mago disse che per almeno una quindicina d’ anni sarebbe stato inutile riprovare». Carmine, un uomo che nelle vicinanze della grotta di Jalarde c’ è nato e ancora ci vive, ha qualcos’ altro da raccontare. «Il vecchio custode della Madre di Cristo – dice indicandomi una chiesina su uno sperone roccioso assediato dagli ulivi – mi disse che alla Grotta di Jalarde ci si arrivava anche passando dalla Grotta Nera, un buco nascosto tra pietre e cespugli vicino alla chiesa. Ma una volta ho visto strane cose laggiù ed è meglio stare alla larga». Insisto, anche se non serve, e Carmine continua a raccontare. «Successe una notte di una decina d’ anni fa. I cani si misero ad abbaiare e non smettevano più, mi guardai attorno e vidi una luce laggiù, vicino alla chiesa. Decisi di andare a vedere e mentre mi avvicinavo piano piano, sentii delle voci, come una cantilena. Mi affacciai da un muro e guardai nel cortile: c’ erano delle persone incappucciate che stavano in cerchio attorno a un fuoco e cantavano, pregavano. Ebbi paura e scappai. Chissà, forse facevano qualche rito per trovare il tesoro». Più difficile trovare notizie del brigante Jalarde perché solo i più vecchi possono raccontare quello che sentivano dire dai loro nonni e così, a forza di passaparola, i racconti arrivano come favole sbiadite. La signora Raffaela, ormai vicina all’ ottantina, ne racconta una proprio bella. «Quand’ era bambino, mio nonno abitava accanto alla
casa della moglie di Jalarde. Spesso la donna preparava un fagotto di vestiti puliti e li dava a mio nonno ragazzetto che senza farsi vedere da nessuno scendeva lungo i sentieri della montagna e li portava alla grotta dove il brigante e la sua banda si nascondevano coi loro cavalli. Un giorno, però, venne preso da uno dei briganti che non lo conosceva e che lo picchiò forte, dicendogli poi di non farsi più vedere da quelle parti. Proprio in quel momento arrivò Jalarde insieme ad altri briganti e visto quello che era successo, ordinò a uno dei suoi di sparare un colpo in testa all’ uomo che aveva picchiato mio nonno. Lo ammazzarono all’ istante – continua la signora Raffaela mettendosi le mani nei capelli – e mio nonno, spaventato, disse che non sarebbe più tornato a portare i vestiti puliti. Jalarde capì e per compensarlo di tutto quello che aveva fatto fino allora gli regalò un calice d’ oro che mio nonno portò a casa e suo padre nascose all’ interno di un muro. Io non so dove venne murato, ma in casa se ne parlava sempre. Poi sono passati tanti anni, i nonni sono morti, io sono diventata vecchia e la casa è stata venduta e rivenduta. La famiglia che ci vive ora non sa nulla di quel calice d’ oro, ma se dovessero trovarlo dovranno ridarcelo. Appartiene alla mia famiglia, ce lo regalò Jalarde, il brigante della grotta». Io alla Grotta Paglicci ci vado di giorno e accompagnato da due guide un po’ speciali, anche nei nomi: Paolo Gentile e Enzo Pazienza, fondatori delle due associazioni che per anni si sono combattute in nome della valorizzazione del patrimonio culturale di Paglicci. Ora hanno fatto fronte comune e inseguono lo stesso sogno: far conoscere la grotta e attirare visitatori. La strada per Paglicci è franata da mesi e così bisogna fare un giro largo con l’ auto, poi risalire a piedi il pendio sassoso tra gli ulivi e finalmente s’ arriva alla grotta. L’ ingresso è dietro grandi massi e cespugli fitti, una pesante porta di ferro sbarra l’ entrata. Nel pavimento dell’ atrio, accanto alla parete sinistra, si apre un pozzo quadrangolare profondo 13 metri. L’ hanno scavato gli archeologi in oltre quarant’ anni di ricerche ed è un vero pozzo del tempo. I primi strati di terreno, quelli a livello del pavimento, hanno restituito oggetti antichi di circa 11 mila anni, ma scendendo di strato in strato, di metro in metro, gli archeologi hanno trovato testimonianze di 20 mila anni, 50 mila, 100 mila, 250 mila anni fa, e sotto ci sono ancora livelli intatti che promettono storie ancora più antiche. Una sequenza stratigrafica imponente che racconta quando c’ erano altri uomini e altri climi, attraverso ossa di animali che non vivono più qui, utensili e armi di pietra, ossa incise con belle figure di animali, incisioni che fanno pensare a una forma di «scrittura» già oltre 15 mila anni fa. Ci sono anche due sepolture, una donna e un ragazzo, che raccontano riti funebri complessi e sepolture di corpi smembrati che evocano a rituali raccapriccianti. E, in fondo a tutto, nascosti nell’ ultima sala dove la luce non può arrivare, ci sono due cavallini rossi dipinti sulla parete e impronte di mani aperte che dicono «io sono stato qui», ventimila anni fa. Per tutto questo Paglicci è la vera grotta del tesoro ma, come quello del brigante, anche quello preistorico non si fa vedere perché in quasi mezzo secolo di ricerche nessuno è riuscito a fare in modo che il pubblico possa almeno affacciarsi in questo scrigno. Non per i sortilegi di Satana in questo caso, ma per quelli piccini piccini dei burocrati. vdomenici@corriere.it (5 – fine. Puntate precedenti: La ragazza dell’ harem, 3 agosto; Amore a fumetti, 11 agosto; La spada nella roccia, 15 agosto; Il paese delle streghe, 24 agosto). La mappa IL PAESE LA STRADA, IL LIBRO La Grotta Paglicci si trova a 8 chilometri da Rignano Garganico, 34 da Foggia. In paese, presso il Centro Studi Paglicci, è aperta una mostra con foto, oggetti originali e calchi. Informazioni: tel. 368/7505314, oppure Comitato Pro Grotta Paglicci: www.paglicci.com L’ unico libro divulgativo è «Paglicci», di A. Palma di Cesnola, distribuito gratis dalla Regione Puglia: 0882/832524

Domenici Viviano
(1 settembre 2003) – Corriere della Sera

Avicenna, ecco i reperti romani trovati a Carpino!

A proposito degli scavi effettuati nella piana di Carpino e Cagnano Varano negli anni ’50 (per chi non lo sapesse consiglio questa  lettura e questo link) ecco sono alcuni dei reperti ritrovati (gli altri sono in giro per l’Italia).
Sono esposti a Foggia, presso il Museo del Territorio (info visite qui)

 

Domenico S. Antonacci

Parco Archeologico Siponto, entro un anno l’inaugurazione

Importanti novità sul parco Archeologico di Siponto sono emerse nel corso della XVIII edizione del Premio di Cultura Re Manfredi, grazie all’intervento dell’archeologa Caterina Laganara, responsabile della campagna di scavo a Siponto. ‘Entro la prossima primavera il Parco Archeologico di Siponto sarà una grande realtà del territorio di Capitanata e potrà essere inaugurato. Lavoreremo anche per recuperare l’anfiteatro e tra qualche mese inaugureremo la mostra permanente sull’antica Siponto presso il museo del castello di Manfredonia’. Intanto ieri è ripresa la campagna di scavo che andrà avanti fino al prossimo 4 ottobre

Saverio Serlenga  (ondaradio.info)

Altre notizie a riguardo

Nuove ipotesi sulle origini di San Marco in Lamis: Mura, torri e campane

Le origini di San Marco in Lamis sono tuttora incerte. A differenza di altri centri garganici, per qualche oscuro motivo, i dubbi sulla sua nascita e sulla sua evoluzione rendono difficoltoso il lavoro dello storico che deve assemblare i pochi pezzi di storia finora accertati.

Una tra le leggende locali narra di alcuni pastori nomadi i quali con i loro porci vagavano alla ricerca di un posto sicuro che potesse difender loro dalle bestie selvatiche e che potesse dar loro ottima ospitalità. Costoro, in seguito, data la posizione strategica e l’abbondanza di acqua iniziarono a costruire il primo centro storico su delle palafitte, l’attuale “Padula”. Tra le tante leggende, questa è la più in voga e forse in parte vera dato che è dimostrato che nella valle dello starale vi era un alveo e che alcune case del centro storico hanno antiche fondamenta in legno, anche la chiesa della Collegiata è stata fondata su pali di legno. Altre leggende narrano di alcuni fuggitivi che trovarono rifugio nella nostra valle e che fondarono il primo insediamento. Non è dato sapere chi fossero questi fuggitivi. Il Fraccacreta riporta che i cittadini della antica Arpi fuggendo dalla città in procinto di essere distrutta si fossero rifugiati sui monti dando vita a San Marco In Lamis e Rignano Garganico. Vi è anche qualcuno che ipotizza la versione di Saraceni fuggitivi che dalle coste si spinsero nell’entroterra per scampare alla morte. Se è vero che nelle leggende vi è sempre qualcosa di vero bisognerebbe verificare per mezzo di validi documenti storici ognuna di queste. Impresa ardua tuttora intentata. Purtroppo, da un punto di vista meticolosamente storico, quanto viene riportato è molto discutibile. Si suole scrivere che le origini della città di San Marco In Lamis risalgono all’incirca all’anno mille e che la sua storia è legata strettamente a quella del convento di San Matteo. Le basi di tale teoria derivano dallo scritto del notaio Giuliani “Storia statistica e vicende della città di San Marco In Lamis”, che storico non poteva definirsi. Inoltre ciò è confermato dall’insigne preside Pasquale Soccio, il quale nonostante le sue indiscutibili qualità poetiche e letterarie, si basava su fondamenti preconcetti privi di ogni riscontro storico. La verità è che nessuno nel corso della nostra storia ha mai osato andare oltre, forse per malavoglia o forse per evitare lo scontro con i pochi detentori della cultura locale, arroccati sulle loro posizioni e pronti ad attaccare coloro i quali mettono in discussione il loro operato. In effetti gli archivi comunali non sono mai stati spulciati e valorizzati come in altre parti, ma nel corso degli anni spesso si è verificato un vero e proprio stupro, con la sottrazione di importanti documenti dal valore storico inestimabile da parte di privati cittadini che hanno preferito farne dei cimeli invece di mettere il tutto a disposizione della collettività. Quanto detto finora, ha portato alla irreversibile validazione storica di quella che potrebbe essere una storia molto diversa da quella propinataci fino ad oggi. In questi giorni ho avuto la conferma che quanto mi accingo a riportare non è solo una mia folle teoria ma una semplice deduzione scaturita da riflessioni e contraddizioni palesi che nel corso della mia breve esistenza mi hanno sempre accompagnato. Potrei iniziare con una domanda che si pongono spesso anche i bambini delle scuole elementari: “Perché il nostro paese si chiama San Marco In Lamis e perché il gonfalone è simile quello della Serenissima Repubblica di Venezia, ovvero il leone di San Marco?”Qualcuno vi ha mai dato una risposta concreta? Credo di no, neanche a me l’hanno mai data. […]

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di Ludovico Centola (http://www.sanmarcoinlamis.eu)

Masseria federiciana nel piano di Carpino (??)

"Si dice che"
… questa masseria risalga ai tempi di Federico II e faccia parte del sistema di masserie sviluppatosi in tutto il tavoliere fino alla terra di Bari voluto proprio dall’imperatore in persona.
La certezza non si ha, ma vari indizi confermano che potrebbe trattarsi proprio della struttura descritta; purtroppo nessun documento che ne parli è stato trovato, nemmeno dal D’Addetta, il famoso storico locale che si limita a citarla prendendo con le pinze l’idea che sia del periodo di Federico II.
Una attenta perizia con il gruppo archeo-speleologico Argod potrebbe confermare l’ipotesi.
L’edificio, che si trova esattamente al centro del piano di Carpino, a 500mt dalla Chiesa di Sant’Anna, non è in ottime condizioni ed ha subito interventi che in alcuni punti ne hanno compromesso la forma originaria. Le sue dimensioni, inusuali per un edificio agricolo della zona, lasciano sorpresi l’osservatore.




Altre foto

Domenico S. Antonacci

Gli scavi di Avicenna a Carpino

Queste sono alcune foto degli scavi eseguiti negli anni ’50 a Carpino,precisamente in località Avicenna,vicino all’ex casello ferroviario (nella prima foto si scorge sullo sfondo la ferrovia).Gli scavi hanno portato alla luce parte di una villa romana utilizzata successivamente come necropoli.Qui sono stati rinvenuti centinaia di oggetti,anche preziosi.Il tutto si trova ora nei musei di Bari,Taranto e Siena.Gli scavi si sono interrotti dopo qualche mese,così come la speranza di riscoprire una città,forse la mitica Uria.Oggi tutto è ricoperto da colture di ulivi e vite.Ancora oggi ,in altre zone del piano,quando si zappa la terra si portano alla luce monete e cocci, segno inequivocabile che una volta nella piana c’era una città molto estesa.Ci auguriamo che un giorno tutto possa tornare alla luce del sole……

Domenico S. Antonacci

FU UNA DONNA A DISEGNARE I CAVALLI DI GROTTA PAGLICCI NEL PALEOLITICO

LA BIZZARRA TEORIA DI DEAN SNOW, ARCHEOLOGO E DOCENTE DELLA PENNSYLVANIA STATE UNIVERSITY, CHE HA ANALIZZATO LE IMPRONTE DI MANO RINVENUTE IN VARIE GROTTE PREISTORICHE DEL PIANETA
di Angelo Del Vecchio

RIGNANO GARGANICO (FG). Chi erano gli artisti che hanno affrescato Grotta Paglicci e hanno realizzato importantissime opere d’arte mobiliare tra 25.000 e 11.000 anni da oggi?

Sicuramente preistorici molto colti, con capacità espressive, visive e d’ingegno simili o uguali alle nostre. Seppellivano per esempio i propri morti, avevano una propria religione, avevano un proprio linguaggio, probabilmente avevano pure una rudimentale forma di comunicazione scritta, si radunavano in clan, avevano una propria gerarchia interna di potere e conoscevano sicuramente forme artistiche e culturali all’avanguardia. A Paglicci, come nel resto delle tribù paleolitiche organizzate d’Europa, il ruolo della donna doveva essere molto importante ed emancipato. A testimoniare ciò l’importante teoria di un archeologo americano, il prof. Dean Snow della Pennsylvania State University, secondo cui ad occuparsi dell’arredamento e della cura estetica della grotta erano le donne (o molte di loro).

Snow ha studiato molte cavità ubicate nei vari continenti e si è soffermato maggiormente su quelle europee, soprattutto i siti paleolitici di Pech Merle in Francia e di Grotta Paglicci in Italia. La sua "curiosità scientifica" si è concentrata sulle "firme" lasciate dagli artisti, ovvero le impronte di mano trovate vicino ad ogni dipinto, quasi sempre realizzati con ocra e carbone. Pech Merle e Grotta Paglicci, da questo punto di vista, sono molto importanti perché le impronte (per meglio essere precisi: le contro-impronte) sono state rinvenute nelle adiacenze di pitture parietali di cavalle gravide tra i 25.000 e i 20.000 anni fa. Artisti, anche donne, secondo l’archeologo americano, erano in attività in Europa e nel mondo già a partire da 40.000 anni or sono. Non sappiamo quale ruolo avesse il gentil sesso nella società paleolitica, sicuramente però la donna era considerata alla pari dell’uomo. Dean aggiunge che molte di esse avevano uno spiccato senso dell’arte. Quanto dice lo ha appreso direttamente dalle impronte, in positivo e in negativo, e dai graffiti di mani lasciati nelle grotte: molte sono piccole e sottili, a testimoniare che appartengono al genere Homo Sapiens femminile. Per meglio avvalorare la sua tesi ha effettuato un esperimento: ha confrontato le antiche impronte con alcune più moderne lasciate da diversi volontari. Molte di quelle arcaiche hanno evidenziato il dito anulare e l’indice lungo e il mignolo piccolo (mani di femmina). Le ricerche di Dean per il momento si sono limitate all’analisi di foto e al sopralluogo in alcune caverne in Francia e in Spagna, in futuro potrebbero concentrarsi su quelle pugliesi rinvenute a Grotta Paglicci nell’entroterra del Gargano.

Chissà se la donna cromagnoniana rinvenuta nella grotta rignanese nel 1986 e vissuta tra i 23.000 e i 24.000 anni fa amasse o praticasse l’arte, certamente amava l’estetica e la bellezza, così come testimonia la ricostruzione del suo viso ad opera del prof. Francesco Mallegni dell’Università degli Studi di Pisa e gli oggetti di “bigiotteria” rinvenuti nella sua fossa tombale.

Ulteriori informazioni sul portale internet www.paglicci.net

Fonte Garganopress.net

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