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Quella prima volta di Beppe Lopez al Carpino Folk Festival

18 maggio 2009 alle ore 20.18
Antonio Basile
Ciao Beppe non avendo ricevuto risposte alla mia email del 12 maggio le riscrivo qui.

Ciao Beppe è giunto il momento di mantenere le promesse.
Sarebbe molto gradita la sua presenza a Carpino per la prossima edizione del Carpino Folk Festival che si terrà dal 02 al 09 agosto.
Stiamo lavorando sul programma e ci piacerebbe presentare il suo libro “La Scordanza”.
Lei ha dei suggerimenti su come si potrebbe impostare la presentazione?

18 maggio 2009 alle ore 21.03
Beppe Lopez
potremmo esserci io e un paio di interlocutori: un letterato e un intellettuale-politico. oppure si potrebbe coinvolgereì il solo Giovanni Moro (il figlio), che io però non so come rintracciare. oppure potrebbe esserci un’idea “a due”: io e Roberto Cotroneo (abbiamo tutt’e due scritto un romanzo sugli anni settanta, ma profondamente e significativamente diversi). oppure io e Carofiglio (io, un “ragazzo” del quartiere popolare barese libertà, e lui un “ragazzo” del quartiere-bene murattiano. se ti va, riparliamone a voce (il mio tel.: 339….)

27/06/09, 11:21
Antonio Basile
Ciao Beppe perchè invece, con l’occasione della presentazione del tuo volume, non rilanciamo dal Carpino Folk Festival l’appello per la nomina a Senatore a vita di Giovanna Marini.
Secondo me con te, Giovanna Marini altro esponente firmatario dell’appello, ad es. Alessandro Portelli potremmo realizzare una bella serata e sostenere la causa che non possiamo non condividere.

27/06/09, 16:21
Beppe Lopez
SAREBBE BELLISSIMO. CI STO SENZ’ALTRO. del resto, tempo fa mi ha telefonato uno del Carpino Folk festival facendo riferimento alla nostra ipotesi e ottenendo da me la disponibilità a venire: aspettavo notizie. MA LA TUA IDEA E’ PROPRIO BELLISSIMA: IO E PORTELLI – E QUANT’ALTRI – A LANCIARE LA CAMPAGNA PER GIOVANNA MARINI SENATRICE A VITA,. anche in risposta al degrado della politica attuale!


Niudd’ se le ricorda, mo, le ultime tre volte che invece si è mettuto a piangere, qualche mese apprima di venirsene qua.
La prima fu a Carpino. Sì a Carpino, sopr’al Gargano.
Quante volte che l’avevano sentuta insieme, lui e Saverin’, la Tarantella di Carpino, la canzone più bella, la melodì più accorata, la musica più addolorata, la voce più struggente, il ritmo più soave di cui rècchia umana abbia mai goduto. No, non quella della Nuova Compagnia di Canto Popolare o quella di Musicanova. No. Quella è robba di recupero. Ma proprio la Tarantella registrata dal vivo, il trenta dicembre del 1966, da Roberto Leydi e Diego Carpitella a Carpino (Foggia, Puglia): canto e chitarra battente di Andrea Sacco, più le due chitarre francesi di Michelantonio Maccarone e Gaetano Basanisi, e le castagnole di Rocco Di Muro. Quel dì Andrea e i compagni suoi avevano semplicemente cantato e sonato, come cantavano e sonavano a ogni serenata, a ogni sponsalìzio, a ogni festa paisana. Solo che quel trenta dicembre del 1966 ci stava un registratore. E solo per questo fatto avvenette il miracolo. Quella che era stata per secoli una canzone poveredda, di poveriddi e per poveriddi diventò un monumento, una delle sette meraviglie del mondo che da sola giustificherebbe l’esistenza dell’Unesco, l’aria più celestiale, la ballata più ammagagnata, la poesì più misteriosa, le strofe più arabescate, il ritornello più strascicato, l’intonazione più affatturata che fantasì umana potesse immaginare e alla quale polmone, cannarile, lengua e bocca umana potessero dare fiato.
Il trentatré giri che la conteneva (I Dischi dell’Albatros, Vedette Record, Italia vol. 1, I balli, gli strumenti, i canti religiosi, antologia a cura di Roberto Leydi) era quello più strutto di tutta la collezione sua, che pure ne vantava di capolavori. Da quando Saverin’ teneva appena tre mesi, sino all’ultima volta che stette con lui, apprima di scìrsene a Bologna – che ne teneva oramà ventitré di anni – se la sono sentuta cento, mille, diecimila volte la Tarantella cantilenata da Andrea.
E che gli va a capitare, quando se ne stava già a solo a solo come una mummia dentro a quella grande casa di campagna? Gli va a capitare che un compagno, Alberto, l’ultimo che si ostinava a tentare di tirarlo fuori da quella depressione, gli domandò se volesse accompagnarlo a Rodi Garganico – lui è originario di quel paisotto sopr’al l’Adriatico – perché teneva da sbrigare certe pratiche al Comune a proposito di un terreno ereditato che stava a vendere. E Niudd’, senza convinzione, si facette trascinare.
Succedette che, per certe complicazioni burocratiche, avevano da rimanere là pure il dì appresso. Allora fu lui a dire ad Alberto che la voleva vedere almeno per una volta Carpino, patria di quei cantatori leggendari, di quella musica senza tempo, di quelle parole che più che foggiane parevano turche, turchine e che comunque non aveva mai capisciuto checcosa volessero significare esattamente (e di cui, intenzionalmente, mai ha cercato il testo scrivuto). Voleva vedere com’era fatto quel mucchio di case e casaredde che una magì aveva da tenerla se là, proprio là, qualche uno inventò quella magica maniera di cantare. Così decidèttero di scirci a mangiare qualcheccosa, quella sera stessa. E là avvenette il prodigio. Parcheggiata la macchina, stavano caminando tra quelle viòttue, quando si sentette una musica da lontano. Evidentemente una festa paisana. Sonavano e cantavano. Mano a mano che si avvicinavano, Niudd’ riconoscette quella musica e pure quella voce. Appena sbucarono dentro allo spiazzo, la scena fu chiara: Andrea Sacco, classe 1911, proprio lui, lui in persona, che chiaramente campava ancora, stava a cantare la Tarantella di Carpino. È stato, per Niudd’, uno dei momenti più emozionanti della vita. Cercò istintivamente Saverin’ con gli occhi, con la capa, col core, con passione, con dolore, con disperazione, e non ci stava.
Piangette ininterrottamente per tutt’e tre le volte, una dopo l’altra, che Andrea Sacco cantò, ricantò e arricantò a furor di popolo quella nenia dolce e disperata.
La seconda volta che piangette, ma certo non come a Carpino, fu dentro a un “centro sociale” romano dove lo aveva trascinato sempre quel compagno suo che non aveva ancora perduto la pascienza. Cantava e sonava un gruppo leccese di pìzzica.
Ci sta da precisare che era stata la “musica popolare”, quella ricchezza e quella bellezza di un mondo antico di poveriddi, mo riconosciuta da tutti come forma classica di comunicazione culturale e sociale, era stata quella musica che a lui aveva regalato o svelato radici che non teneva o non sapeva di tenere sino a quando era rimanuto dentro alla città sua di origine, notoriamente commerciale, materiale e pratica pratica. Quella musica aveva comenzato a sentirsela dentro al sangue e dentro al core con la scoperta, da “romano”, delle cantate dei braccianti di Matteo Salvatore, un analfabeta di Apricena (che poi, guarda la combinazione, è a una sckutazza da Carpino), capace d’inventarsi da solo una tradizione che pareva inesistente o forse più esattamente di adacquare e di fare rifiorire – con la fantasì, con l’allegrì e pure con le ferite sue – temi e melodì asseccate da secoli dentro a quella terra che non conosceva l’acqua. E mo Matteo viene indicato da tutti come un maestro della musica popolare, come un monumento vivente della “musica etnica”, pur essendo rimanuto sempre selvatico, solitario e, nonostante che si atteggi ad artista di varietà e a fìgghio di zòccana, disperato. Apprima Matteo, poi i Cantori di Carpino e poi ancora la pìzzica leccese. Quella musica popolare della terra nostra era diventata, trent’anni dopo, pure la radice delle emozioni e della cultura non solo musicale di Saverin’.
Dentro al “centro sociale” romano, quella sera, il violino non lo sonava Luigi Schifani, l’organetto non era quello di Pasquale Zizzari, il tamburello non lo batteva Salvatora Marzo, la chitarra non la faceva soffrire Giuseppe Ingusci, come dentro alla registrazione fatta a Nardò (Lecce, Puglia) da Diego Carpitella e Roberto Leydi.
L’aria non era nemmanco quella del giugno 1959, quando Ernesto De Martino se ne scendette verso la “terra del rimorso” con uno psichiatra, una psicologa, un musicologo e una sociologa (Giovanni Jervis, Letizia Jervis-Comba, lo stesso Carpitella e Amalia Signorelli) per studiare dal vivo la malatì misteriosa che colpisce le fèmmene muezzicate dalla mitica taranta e la cura rituale di musica, ballo, fazzuetti colorati e scenografì di frasche, fronze e acqua scorrente che sana quelle poveredde con l’aiuto di Santu Paulu meu delle tarante.
Ma il ritmo era quello. L’appassionata voglia d’identificazione di quei ’uagnuni e di quelle ’uagnedde con i cristiani che avevano campato e sofferto dentro alla Grecìa salentina era veramente trascinante. Tutti i ’uagnuni e le ’uagnedde presenti dentro a quel “centro sociale”, praticamente tutti di Roma, si mettèttero a ballare più o meno come ballavano le tarantate, misckando senza saperlo la pìzzica-taranta, la pìzzica-pìzzica e la pìzzica-duello. Non stavano a Galatina, né a Melendugno, né a Torrepaduli, ma quella musica si era infilata veramente dentro alle vene e misckata col sangue di tutti. Pure dentro alle vene di Niudd’, pure col sangue suo, ancora una volta. Così si facette pigliare dalla commozione, gli venette istintivamente il bisogno di condividerla con Saverin’. Ma Saverin’ non ci stava. Il pianto gli salette dalle viscere. Se ne fuscette a nascondersi fuori, all’aperto, apprima che i sigghiutti gli scuotessero penosamente tutto il corpo e gli si bagnassero gli occhi.
La terza e ultima volta che Niudd’ ha piangiuto ….

“La scordanza”, il libro di Beppe Lopez pubblicato da Besa muci 2008, narra del passaggio del nostro Paese – e del suo protagonista – dalla fase pre-moderna alla modernità, dalla fase della ricostruzione a quella della perdita dell’innocenza e dei valori.
Per inseguire i suoi sogni e dare corpo al suo engagement, il “sessantottino” Niudd’ emigra da Bari a Roma per fare il giornalista politico, partecipando a quel clima in cui la liberazione veniva vissuta in prima persona. Tanto per cominciare, nei rapporti professionali e nei rapporti d’amore e di sesso. Le vicende del “giornalista democratico” si intrecciano con quelle dei colleghi “borghesi” e salottieri, del “movimento”, del femminismo, dei “compagni che sbagliano”, del terrorismo, dell’inadeguatezza del sistema politico e delle sue ambiguità. In quel clima, dopo un paio d’anni dalla nascita di sua figlia Saverin’, Niudd’ sfascia, come da copione, il suo matrimonio con Iagatedd’, la ragazza che per amore lo aveva seguito nella capitale… Niudd’ vive lo “spartiacque” della fine degli anni Settanta (emblematizzato dall’assassinio di Moro) come una brutale, indebita, devastante interruzione di un “processo di democratizzazione” nel quale si era identificato per tutta la vita e al quale aveva legato anche le sue ambizioni di avanzamento sociale e di carriera…
Doppiamente sconfitto e ferito – dal crollo del suo mondo di valori e di rapporti, e da una tragedia personale, la più grande che possa capitare a un uomo, che non vuole accettare – Niudd’ torna nel 2000 nella sua città, a sopravvivere proprio nella casa in cui era vissuto da ragazzo, in attesa e con la convinzione di poter rivedere sua figlia…
Il romanzo è diviso nettamente in due parti. Andata e Ritorno.
Nella prima, quella dell’emancipazione, della speranza, delle utopie e infine della “liberazione”, Niudd’ ricostruisce la sua storia famigliare e personale, con radici in un mondo arcaico, insieme semplice e inquieto, che si affaccia alla modernità. In questa prima parte prevale il registro letterario e, con esso, un linguaggio frutto di impasto fra italiano formale e materiale linguistico meridionale (lo stesso affilato idioletto usato da Lopez nel suo romanzo di esordio, Capatosta, caso letterario del 2000).
Nella seconda parte, “Ritorno”, quella della delusione, della sconfitta e del dolore, prevale un registro più “ragionante”, da documento umano e sociale, a tratti anche toccante e insieme ossessivamente ideologico. Qui Niudd’ fa i conti col proprio passato e col proprio insostenibile, inammissibile presente: l’assenza di sua figlia Saverina, dell’unico amore, dell’unico fiato, dell’unica ragione di vita che gli è rimasta su questa terra. Almeno così crede. Tiiene un poco di confusione in capa da qualche tempo. Non esclude nemmeno di soffrire di qualche inganno della memoria. Una scordanza? Un’amnesì? Una rimozione? Non lo sa…

BEPPE LOPEZ, torno al Carpino Folk Festival nel 2018 in Un viaggio slow a bordo dei treni delle Ferrovie del Gargano per una conversazione sul suo libro dedicato a “Matteo Salvatore, l’ultimo cantastorie”, Aliberti Editore.

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Un pensiero per chi pare aver scoperto la fonte inesauribile della rete. Non ho nulla contro chi utilizza i miei testi, anzi mi fa molto piacere, ma, ne jènn nzangh'jiann indli cutìn, almeno cita la fonte non si chiama per caso il blog di Antonio Basile. Sostieni chi agita i problemi della rigenerazione della nostra terre e ne propugna la soluzione!

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