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la storia di carpino

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Roman Vlad tra i ricercatori che si sono occupati delle musiche del Gargano

Locandina La legge

Un pomeriggio al telefono con Roman Vlad di Antonio Basile
A 50 anni dalle riprese de La legge / di Jules Dassin

Nel giugno 1956, uno scrittore in piena crisi ideologica trascorreva le sue vacanze nel Gargano, cercando la solitudine e la pace; nel giugno 1957, un romanzo di ambiente italiano “La Loi” compariva nelle librerie parigine; nel giugno 1958, Jule Dassin dava il primo giro di manovella al film che era stato tratto dal film. Interpreti del film sono Gina Lollobrigida, Pierre Brasseur, Marcello Mastroianni, Melina Mercouri, Yves Montand e Paolo Stoppa. Il luogo principale in cui viene girato il il film è Piazza del Popolo di Carpino.

Nel dicembre 2005 siamo venuti in possesso di un testo curato da Cecilia Mangini – La legge / di Jules Dassin ; a cura di Cecilia Mangini – Dal soggetto al film; Tratto dal romanzo [La loi] di Roger Vailland, Sceneggiatura di Françoise Giraud e Diego Fabbri, In copertina: Il romanzo di Roger Vailland e la nuova storia di Dassin, un paese a disposizione della “troupe” – in cui è presente un’intervista che potrebbe modificare la sequenza e l’elenco dei ricercatori che furono a Carpino e sul Gargano e che pertanto possono essere in possesso o possono essere d’aiuto al mondo accademico per l’individuazione di uno dei rari materiali sonori e video raccolto quando la televisione non aveva ancora contaminato completamente le tradizioni musicali dei nostri territori.

L’intervistato in questione nel raccontarci le difficoltà nella realizzazione delle musiche del film “La loi” di Jules Dassin afferma “In tutti questi paesi, radunavamo la sera, sulla piazza o in qualche casa, dei giovani e dei vecchi disposti a farci sentire i canti che sapevano”. “Tornai con ore di musica registrata della quale mi sarei poi ampiamente servito come della più preziosa e autentica fonte d’ispirazione”.

Come sappiamo molti sono gli studiosi che si sono recati nelle nostre terre per scopi più o meno nobili, in questo caso stiamo parlando del periodo 1957/1958 e di un grande maestro, Roman Vlad.

Abbiamo contattato il maestro, che, gentilissimo, ci ha richiamato per telefono una domenica pomeriggio di questo autunno.

La telefonata è durata quasi un’ora, durante la quale Roman Vlad, emozionato e stupito della nostra trovata, ci ha raccontato di aneddoti, persone e paesaggi pieni di bellezza e schiettezza, di suoni, di sogni e di fatiche spesso indescrivibili e della veridicità di quanto riportato nell’intervista della Mangini.

Prima di chiamarmi, il maestro aveva già lavorato per noi cercato di recuperare il materiale.

Non era più in suo possesso e man mano che, pieno di gioia, per telefono ci parlava, gli venivano in mente quei lontani giorni a più di 40° gradi all’ombra e di quelle serate trascorse ad ascoltare e vedere danzare le musiche folkloristiche da giovani e anziani rigorosamente maschi.

Roman Vlad intraprese sul Gargano tre viaggi e la troupe di Dassin rimasse a Carpino per circa due mesi.

Secondo il maestro le musiche dovrebbero essere in possesso della Gite film – Monica film (dalle nostre informazioni risulta che le Musiche furono di Roman Vlad dirette da Marc Lanjean, il Fonico fu William R. Sivel, i Direttori di produzione sono stati Baccio Bandini – Luciano Perugia – Walter Rupp e la Produzione è quella di Maleno Malenotti e Jacquer Bar per la GESI cinematografia, la Titanus spa- Roma e Le Groupe des Quatres – Paris) due editori uno francese e uno italiano – e non si tratterebbe di solo materiale sonoro, ma anche video, anche se non raccolto per scopi scientifici nei territori di Carpino, Ischitella, Peschici, Rodi Garganico e Monte Sant’Angelo.

Questo vuole essere l’ennesimo grido di dolore per fare appello a tutti coloro che possono farlo di provvedere al recupero di questo materiale, anche perché ormai sono passati quasi 50 anni e le loro condizioni sicuramente necessitano di un urgente restauro.

Autore: Antonio Basile

1803 Carpino il paese dei deformi, dei brutti e dei delinquenti di Manicone Michelangelo

In una ricerca sistematica sulle condizioni sociali e ambientali che hanno determinato il divenire dei canti e delle tradizioni musicali di Carpino e del Gargano mi sono imbattutto in uno dei massimi rappresentanti della Capitanata del suo tempo Manicone Michelangelo e sulla sua opera "La fisica daunica / Gargano".

Chi vi scrive ha passato tutta la sua infanzia in Piazza del Popolo a Carpino, prima in un Forno, poi in un Alimentare e quindi in Bar, tutti esercizi di vendita e quindi di contatto col pubblico gestiti da mio padre.
I luoghi dei giochi sono stati il Municipio Vecchio, la Chiazzetta dove adesso è collocato Padre Pio e nello spazio poco sotto la cantina di Sciaquetta, la discesa a sinistra della piazza guardando di fronte la Chiesa di S.Cirillo. Poi il passo successivo è stato Via Mazzini e la Piazzetta scoperta, il corso di Carpino.
E’ quindi ha sostanzanzialmente vissuto nei luoghi in cui avvengono i maggiori scambi sociali di Carpino.
Non potete immaginare neanche lontanamente quante persone e quante volte ho dovuto ascoltare la storia del Carpino che fu.

La cosa che più di ogni altro mi ha forgiato è stata la convinzione che i Carpinese fossero stati gentili, sia nel senso di nobilità d’animo che in fattezze e in comportamenti, e che fossero stati mediamente benestanti anche con riferimento ai paesani vicinanti, diciamo cosi autosufficienti.

Mi ricordo che molti mi parlavano di una moltitudine di mulini e che Carpino fosse il centro per la macinazione del grano.
A dimostrazione del benessere, che da sempre Carpino aveva avuto, mi veniva continuamente portato ad esempio il fatto che le Carpinese mai avevano dovuto lavorare fuori casa (molte non lo facevano neanche in casa ed ancora oggi questo è considerato segno di signorilità) e che viceversa le Cagnanese, ad esempio, per mantenere i loro figli dovessero "addirittura" adoperarsi nel lavoro edile.

A partire da questo articolo questa storiella dovrà essere quantomeno rivista dal momento che Manicone a conclusione dice "..ho però scritto la verita lealmente ed onestamente. Morirei di dolore, se venissi a risaper mai che alcuno ritrovasse nella mia opera un tratto solo nemico del buon costume". Il sottoscritto non ha motivo di dubbitare sulle condizioni sociali che Manicone descrive cosi crudamente anche perchè la situazione non è molto diversa da quella che trova il Beltramelli esattamente un secolo dopo.

Articolo a cura di Antonio Basile

Carpino
Situazione ed Etimologia

Questa Terra ch’è posta sopra un colle, si trova situata tra i gradi 33 e 27 di longitudine, e tra i gradi 42 e 2 di lat.Set.: tiene all’Est Vico, all’Ovest Cagnano, al Nord il Lago di Varano, da cui distante 2 miglia circa, ed al Sud S. Giovannirotondo.
Le strade interne di Carpino sono strette e sordide, e le case affumicate e piene d’immondezze. Se voi domandate ad un Carpinese perché non ispazi la casa, vi risponde, che l’immondizia significa abbondanza.
Taluni avvisano, che questa Terra abbi ricevuto il suo nome dai carpini, che abbondano nel suo bosco. Altri poi, che Caprile la chiamano, pretendono, che derivi dalla capre. Io non esaminerò qual di queste due opinioni sia la vera: perchè tutte e due possono essere segni di Etimologisti, e perchè questa quistione nè giova, nè diletta. Dico solo, che sono pure mal consigliati i Carpinesi, perchè colla pazza cesinazione distruggono tutti i loro carpini. Primieramente, il carpino dopo il faggio è il più atto a far fuoco, ed a produrre ottimo carbone. secondariamente, la sua corteccia tinge di giallo. terzamente, alzandosi egli nel gargano a formar albero d’alto fusto, perciò s’adopera a far le palombe delle barche, ed altri arnesi. Finalmente, se noi trovassimo sul nostro carpino, quella specie di cocciniglia, che Linneo trovo sul carpino del Nord, quando non avvantaggeremmo l’arte tintoria? Molti vantaggi speran dunque si possono dal carpino; eppure si distruggono. Oh follia! Carpinesi, voi dovete lasciare ai vostri nipoti l’ombra sacra de’boschi, che vi trasmisero i vostri avi.

Cernali, e Cammini toffoliani
In questa Terra poche sono le case coi cammini. In tutte le altre non v’è che un semplice foro praticato superiormente nel tetto, per cui se n’esce il fumo, e che dagli abitanti Cernale è chiamato. Detto foro tiensi chiuso nel verno: il perchè le case empiosi di fumo, e l’aria interna rendesi mefitica, ed insalubre. Diffatti dal legno in combustione non si sprigiona che un mescuglio di gas acido carbonico, e di gas idrogeno. Mettetevi nell’atmosfera del fumo: de’ forni pizzicori vi obbligheranno a chiudere gli occhi, ed una violenta soffocazione c’impedirà di respirare, il che è proprio del velenoso gas carbonico. Forse i Carpinesi diventeranno un giorno culti, ed eleganti. Allora si torrano i Lapponici cernali, e si faranno gli utili cammini. Sono cammini utili quelli che non fumano; e sono tali i cammini inventati dal signor Toffoli. Accenniamoli, per lo bene del Prossimo.
I cammini presenti sono tutti fatti a guisa d’imputo rovescio, cioè larghi abbasso, e ristretti alla cima. Or il Signo Toffoli dimostra colle leggi de’ fluidi, che i cammini fabbricati in tal guisa sono contrari alla natura del fumo; giacché in tal cammini deve discendere, e retrocedere nella stanza, e non gia ascendere. Quindi vorrebbe, che i cammini si facessero a quisa di un cono rovescio, ovvero piramide colla base all’insù: che il cammino avesse l’imboccatura inferiore ristretta; che la canna, come si alza, si andasse dilatandola sino alla metà circa della sua lunghezza: e che il rimanente della canna si andasse dilatando fino alla sua estremità superiore in modo, che dalla sua imboccatura inferiore fino alla cima si andasse gradatamente crescendo il diametro dell’interna parte della canna.
Il Siggnor toffoli dimostra pure colle Leggi de’ fluidi, che in tali cammini il fumo ne si arresterà per la via nelle canne, nè retrocederà nelle stanze, ma uscirà superiormente dai cammini. Ne assicura pranco, che in simili cammini non si formerà quella quantità di fuliggine, la quale oltre di essere incomoda cadendo il più delle volte ne’ tempi assai ventosi sopra le pentole, si accende eziandio all’interno della canna con pericolo per la casa, e de’ vicini: del che abbiamo frequenti e funesti esempi. Io qua riferir non debbo ragioni, colle quali il Signor Toffoli dimostra l’utilità de’ suoi cammini, perchè troppo dal mio soggetto mi allontanerei. Solo dico, che i cammini toffoliani sono altrove ben riusciti: che i Carpinesi sostituir gli dovrebbonsi i perniciosi cammini all’antica e surrogarsi i novlli da me brevemente descritti.

Ciera e Costumi
I più de’ Carpinesi sono di deformi fattezze, e di ceffo brutto. Ingentil potrebbonsi maritandosi colle vaghe donzelle o di Viesti, o di Vico, o di S. Marco in Lamis, o di altri paesi garganici, che non iscarseggiano di angelici sembianti. In alcune specie di animali sembra avere maggior influenza nelle qualità e nella bellezza o deformità della prole la madre che non il padre. Si vuole, che il mulo il quale è prodotto da una cavalla e da un asino rassomigli più alla prima che al secondo, e che l’altra specie di mulo, il quale nasce da una madrea asina e da un padre stallone, si avvinci più a quella che a questo ma checché di ciò siane, certa cosa è, che i deformi Persiani seppero rabbellire i loro sconci lineamenti col ripetuto innesto delle leggiadre vergini Giorgiane.
L’elegante Abate Bertola ne assicura che viaggiando egli per l’Elvezia, e che essendo stato dal chiarissimo Meister suo intimo amico introdotto in molte case di contadini, osservo dapperttutto una nettezza maravigliosa e vi trovò libri scelti non pur di agricoltura, ma eziando di belle lettere, e di medicina. Entrate nelle case de’ i Carpinesi: voi ci troverete succidezza, ed armi proibite. E di qui quella ferocità di costumi, per cui da lungo tempo hanno i Carpinesi cosi mala voce nel Gargano.
In questa Contrada chiamasi Carpino la Terra degli omicidi e de’ ladri. Di tali facinorosi ve n’han sempre degli sciami, che infestano non che il proprio paese, ma eziandio le laboriose e pacifiche Terre d’Ischitella, Rodi e Vico. Or perchè v’han tanti facinorosi a Carpino? Forse perchè i Carpinesi non hanno di come vivere? Ma essi sono generalmente industriosi e faticatori. Sono forse feroci e ladri per natura? Ma l’uomo nasce mansueto, amichevole, compassionevole. I Carpinesi sono ruvidi e malviventi per cattivo esempio, e per mancanza di educazione. i giovani fanno omicidi e di danno alla campagna perchè veggono gli sgherri grattarsi la pancia e sguazzare non v’ha chi loro insegni il pregio della fatica, della virtù e della pietà.
E chi ce lo insegnerebbe? Forse l’Arciprete. L’attuale arciprete di Carpino catechizza sempre ma un solo Arciprete non basta ad una popolazione di circa quattro mila anime. Forse i Religiosi? Ma a Carpino non vi sono Conventi di Frati, che nello Spirituale non poco giovano al Pubblico. I frati per quanto vogliono immaginare inosservanti, sono senza dubbio nell’esercizio del sacro ministerio molto utili. Predicano, istruiscono, esortano, confessano; e cosi influiscono con vantaggio spirituale negli animi della moltitudine la quale per ordinario ascolta la parola di Dio, sanza badare al costume di chi la predica.
Sarebbe quindi desiderabile che s’introducesse, e si estendesse per la campagna la divozione a S. Isidoro Agricoltore, la cui festa cade secondo i Bollandisti nel 15 Maggio. Egli era pio, devoto, specialmente di Maria Santissima, paziente, caritatevole ma non lasciava un momento il lavoro delle sue terre. Può dirsi che coll’innocente penoso esercizio dell’agricoltura si guadagnava il pane e divenne Santo. Ne accerta il Signor Canonico Zucchini, che in Toscana nella diocesi di Fiesole, di Arezzo e di Cortona già se ne celebra l’Uffizio. L’arciprete di Manfredonia dovrebbe con pastorale dolcezza raccomandarne ai suoi Parrochi il culto e la devozione. Carpino felice, se ne giorni festivi vi saranno catechisti in più chiese e se il parroco metterà sotto gli occhi del popolo le virtù di S. Isidoro Agricoltore. Certo che allora il villano sarà religioso, leale, dabbene.

Inquisiti
Essendo qui i frequentissimi gli omicidi, si intende perchè vi debban esser sempre inquisiti assai. Gl’inquisiti di Carpino vivono di rapine e di qui il proverbio: Carpino, rapina. Le loro rapine hanno per oggetto le capre, i porci, le pecore e gli animali bovini, onde avere di che nutrirsi, e far provvisione di cuoio per gli Scarponi. E’ certamente un tratti di barbara indiscretezza l’uccidere il bue di un poveruomo per servirsi solamente di una piccla porzione di carne e della pelle. E’ vero che gli scarponi sono per gli inquisiti un affare di prima necessità, da che trovansi condannati a trarre una vita errante per luoghi aspri e sassosi: ma il bue, perchè il Ministro Cerere, essendo il più utile, ed il più necessario, essere dovrebbe intangibile. Presso gli Egiziani i buoi per tal tradizione si aveano per animali sacri, e chi li uccideva, era ucciso. E’ presso i Romani era tanto capitale l’uccidere uni di questi animali, tanto quanto l’ammazzare un uomo. A Carpino vengono impunemente scorticati e dagl’inquisiti e da altri. Questo barbaro scorticamento bovino è il termometro della civilizzazione di questa Terra garganica.
Qui evv l’uso, che gli inquisiti custodiscano nel verno gli agghiacci degli Apruzzesi; e per ogni agghiaccio esigono da’ Locati ducati sei, grano, olio, sale ed altre cose. Questo è un uso scellerato. Il Locato paga l’erba al proprietario del terreno a pascolo e paga il salario a’ pastori che le sue mandre custodiscono: perchè dee pagare eziando agl’inquisiti?
Dicesi che se non pagasse agl’inquisiti questi gli scorticherebbeno tutte le pecore. Dunque, rispond’io, il Locato gli paga per timore e non già per giustizia. Eppoi perchè gl’inquisiti di Carpino esigono anche ducati sei per ogni agghiaccio di quelle pecore che pascolano ne’ demani di Vico, Ischitella e Rodi? Può darsi assassinio maggior di questo? Finalmente rubano le pecore i custodi delle pecore, dunque gli inquisiti sono lupi e non custodi.
tali reati punir dovrebbonsi con pene afflittive di corpo. Ne tali pene esser dovrebbon dolci e blande. Le pene debbono essere adattate all’indole ed ai costumi de’ popoli. Il Gargani ha diversi grasi si coltura negli abitanti secondo i vari paesi e Carpino relativamente ad Ischitella, Vico a Rodi, è ancora nel calcolo cronologico politico sette secoli addietro. Quindi certe pene blande, che io credo proporzionate per le dette tre Terre, non le credo proporzionate per i Carpinesi. E’ de’ mali politici, come de’ mali fisici. Or altra è la cura de’ morbi de’ Letterati, altra quella dela gente di lusso ed altra quella della gente di campagna. Dunque le pene proporzionate ei feroci carpinesi debbon essere severe insieme e pronte. La pena che si dà sull’atto del delitto o poco dopo muove il terrore e desta nel popolo l’indignazione contro al delinquere ed una pena che si dà dopo lungo tempo, o quando si è perduta del tutto la memoria del delitto, sveglia nel popolo la compassione verso il reo, e l’indignazione contro la Legge. ma qui i delitti restano impuniti, perchè sono protetti i delinquenti. Epperò disse pur bene scherzando un bello spirito di Ischitella che per estirpare da Carpino i malviventi dovea carcerarsi prima S.Cirillo protettore del paese e poi parecchie Parrucche.
Ma oggi 13 dicembre del 1803 evvi in Carpino la santa Missione. i missionari sono gl’instancabili e dissinteressati Padri di S.Martino, Convento di Ritiro del mio Ordine. Spero dunque sentire conversioni assai e famose; i motivi spirituali sono più efficaci de’ motivi sensibili. Che i motivi spirituali siano più efficaci deì motivi sensibili, cioè che la speranza della felicità eterna ed il timore delle pene interminabili possano più sull’animo umano, che la speranza della felicità terrestre ed il timore de’ gastighi temporali, il dimostro cosi: sieno due uomini egualmente disposti ai delitti, de’ quali uno creda l’altra vita e l’altro l’abbia per una favola. Ciò supposto, ecco come ragioneranno.
La morte violenta dirà il primo non è già come descriversi, una scena terribile, ma un cattivissimo quarto d’ora; l’inferno poi non è già un affare di momento, ma una eternità infelice: dunque se io sarò un ladro, non finirò colla forca i miei mali, ma li comincerò. Ah! lo voglio piuttosto languir nella miseria, ce viver felice col latrocinio. E’ vero, dirà l’altro, che il morire impiccato è una scena spaventevole, ma finalmente ciò non è che un punto doloroso. Se io dunque sarò assassino, se io spoglierò il viandante, si renderò lo spirito su di un infame patibolo, am con questa vergognosa morte io sortio di miseria, io finirò i miei mali: non vè niente dopo il trapasso, il trapasso non è nulla. Ritornerò dunque nello stato di natura e vivrò felice per qualche tempo co’ frutti del mio coraggio.
L’inferno è adunque un freno più forte della forca. L’animo umano resiste più a un violento, ma passeggier dolor, che al tempo, ed alla incessante noia. Or la forca è un dolor passeggiero, e l’inferno una eterna noiosa. Agiscon dunque con più forza sull’animo nostro i motivi spirituali, che i sensibili. Difatti i piaceri di questa vita non sono essi il mobile più potente dell’uomo? Or i fanatici solitari d’Oriente hanno in abbominazione tutti i piaceri de’ sensi. Il piacere dell’esistenza non e egli im massimo de’ piaceri sensibili? Or S. Paolo desidera la morte per vivere con Cristo. Le dolcezze dell’imeneo non sono esse un potentissimo motivo sensibile? Or i Romani avevano le loro Vestali, e noi i nostri Frati, e le nostre Suore. La speranza sella salute eterna, ed il timore delle pene interminabili fanno adunque su di noi una più forte impressione, che tutte le fortune, e le delizie di questa Terra.
Egli e ben vero, che la più parte degli uomini antepongono i piaceri sensibili ai piaceri spirituali: ma perchè ciò? Perchè il maggior numero non medita seriamente i piaceri, o i dolori dell’altra vita. Facciasi da tutti questa seria meditazione e i motivi spirituali saranno de’ delitti il freno più grande. Carpinesi, i Novissimi sono più efficiaci delle carceri di Lucera, della galera e della forca. Dunque pensate sempre a’ Novissimi e voi per un poco di carne fresca e per un paio di scarponi non iscorticherete più nè vacche e nè buoi.
In questo articolo sono stato breve assia, perchè mi ha nauseato il soggetto e mi è quindi mancata la lena al discorso. Ho però scritto la verità lealmente ed onestamente. Morirei di dolore, se venissi a risaper mai che alcuno ritrovasse nella mia opera un tratto solo nemico del buon costume. Ho riprovato e riproverò sempre la rabbiosa maldicenza e l’amara ironia. Nelle Lettere Persiani di Montesquieu quell’Usbeck che calunnia sempre le nazioni e quei giudei, quei cinesi e quegli Spiriti Cabalistici che d’Argens introduce nelle sue Lettere per fare livorose satire contra Genere umano, mi nauseano, me fanno vomitare, m’insultano. Or il mio Spiciliegio ha per principale l’avviamento alla virtù e lo allontanamento dal vizio e dal delitto; ed ecco perchè ho detto de’ mali morali e politici de’ Carpinese soltanto quanto basta per fargli abbominare.
Io non ho voluto parere di ricrearmi nella loro esposizione e pretendo che nè meno altri il faccia, leggendoli. Tanto maggiormente che a Carpino in mezzo a tanta ferocia vi hanno de’ preti morigerati pii ed esemplari, dei galantuomini puliti, di dolce ed onesto costume e protettori della virtù, e de’ contadini laboriosi, benaccostumati e nemici della guapperia e delle rodomontate.

Agricoltura
Carpino tiene al Nord una bella pianura fertile in grano, biade, legumi e lino; generi che sono il nerbo delle rendite de’ Carpinesi. Ne’ boschi cresce la barbare cesinazione, ed in tal guisa cresce d’anno in anno il prodotto del grano, del granodindia e de’ faggiuli e scema quello della legna e delle greggie.
Il prodotto dell’olio è lieve cosa. Potrebbe accrescersi di molto, se si innestassero tutti gli olivastri del vasto Pastromele, luogo poco distante dell’abitato. I contadini poveri estraggono dalle bacche di Lentisco l’olio per le lucerne e per condire le loro vivande. Tanto può l’uso che l’odore un pò forte di cosi tanto olio non gli disgusta punto. e bacche le vanno a raccorre dai lentischi, di cui abbonda l’isola di Varano.
Vi si raccoglie anche del vino, ma in misura non proporzionata al numero degli abitanti. Vi sono pochi frutti perchè il caro divertimento della feroce plebe è di sciantare o recidere i teneri arboscelli. Quindi di Vico provvede sempre i Carpinesi di vino e di frutta e Carpino provvede spesso i Viches di grano e di legumi.

SCHEDA SU MICHELANGELO MANICONE
Michelangelo Manicone (Vico del Gargano, marzo 1745 – aprile 1810) è stato un naturalista italiano, padre francescano.
È una delle personalità più caratteristiche della Capitanata
Viaggiò molto per l’Europa, studiando Medicina a Vienna e a Berlino, Scienze Fisiche a Londra e Scienze Naturali a Bruxelles.
È noto soprattutto per il suo trattato, La Fisica Appula (1806), un’opera di cinque tomi dove vengono analizzate le caratteristiche fisiche delle terre di Puglia e soprattutto del Gargano.
Al Manicone è intitolato il Centro Studi e Documentazione del Parco Nazionale del Gargano sito presso il Convento di San Matteo a San Marco in Lamis.

La fisica daunica / Gargano
Autore: Manicone Michelangelo
Curato da: Lunetta L., Damiani I

Carpino degli anni sessanta raccontato da Francesco Rosso

GARGANO MAGICO

Quando, finita la sconvolta discesa di Cagnano, si aggredisce il rettilineo lanciato attraverso la vasta pianura, l’occhio è attento solo all’asfalto che sfila sotto le ruote e, ingannato dall’uniforme piattezza che nasconde persino il lago, trascura Carpino, alto sul pinnacolo di una collina, mezzo nascosto dal movimentato scenario della stretta valle tagliata come una ferita nelle pietrose profondità garganiche.

Carpino è la risultante di una gara tra fantasie anarchiche, un gioco urbanistico realizzato senza regole che alla fine, benché ciò non rientrasse nelle previsioni, ha trovato una perfetta, compiutissima unità. Veduto dalla strada statale, sembra una bizzarra costruzione cubista eretta da bambini fantasiosi con dadi variamente colorati. Si potrebbe pensare ad un villaggio di nani, costruito sulla loro misura; eppure gli uomini che lavorano nei campi sono di taglia atletica, nerboruti, bisognosi di spazio anche quando crollano per il riposo.

Infatti, di mano in mano che si sale il colle in cima al quale è arroccato il paese, le prospettive di Carpino si definiscono. Il cilindro giallo che si vedeva in lontananza è il breve torrione di un castello ora trasformato in caravanserraglio per non so quanti nuclei familiari, i cubi azzurri, gialli, bianchi sono case tutte quadrate e uguali, con terrazze, balconi, altane a livelli diseguali che si rincorrono in aeree scalinate verso il cielo.

Le strette viuzze sembrano fenditure d’ombra nella gaiezza policroma delle abitazioni e ci si arrampica con le capre camminando sotto cascate di gerani che traboccano dalle terrazze, dai davanzali di aeree finestre raggentilite da cornici di lineare eleganza, da panciuti, spagnoleschi balconi in ferro battuto. Quale immaginoso architetto ha elaborato le improvvise scenografie delle ardite scalinate, le quinte policrome di case disposte con capricciosa asimmetria per limitare la vastità del paesaggio spalancato sulla valle, chiudere nel cerchio di raccolta intimità il villaggio battuto dai venti garganici?

Contadini analfabeti, e muratori altrettanto analfabeti furono gli ignari artefici del miracolo urbanistico; le cornici essenziali che chiudono le finestre, le porte ad arco sulle facciate disadorne, l’aggetto dei terrazzi su povere case, rivelano una civiltà del gusto certo non imparata a scuola, ma dall’armonia del paesaggio in cui questa gente vive, svariante fra montagna, pianura, lago e mare. E sono ancora contadini analfabeti ad ornare con festose ghirlande di gialle pannocchie, di peperoni scarlatti, disposte con inconscio gusto della decorazione, le facciate delle case esposte al sole, a chiudere con dorati fondali di granturco i vani terminali di stradette aperte sulla vallata.

Carpino gode immeritata fama di paese insicuro. Gliela procurò un libro, tradotto in film, che ha denigrato l’intero Gargano. Il signor Roger Vailland, quando, venne in vacanza da queste parti, raccolse come autentiche ed attualissime antiche vicende sepolte da secoli. Gli uomini che siedono al rezzo sulla quadrata piazzetta dominata dalla chiesa, limitata e definita come un palcoscenico su cui la domenica sì recita la piccola sagra delle modeste vanità locali, sono diversissimi da quelli che lo scrittore francese ha abbozzato nel romanzo « La legge », divulgato poi dal film omonimo.

Nelle ore che precedono il tramonto, quando l’aria estenuata dalla calura sfiora con le prime folate fresche i tetti delle case, i carpinesi si riuniscono in piazza, quelli che non lavorano, s’intende, perché gli altri tornano dai campi a notte piena. Il campionario è completo, tutte le classi sociali del paese sono rappresentate. C’è il ricco possidente, ma senza la iattanza del feudatario; c’è il professionista, ma senza la boria del colto fra gli analfabeti; c’è il maresciallo dei carabinieri, ma non la intimidatrice autorevolezza dell’autorità costituita; c’è il manovale povero e analfabeta, ma senza la falsa umiltà del debole angariato.

Formano una comunità ben definita, non afflitta da stridenti ingiustizie sociali. Anche il ricco, quando vi indicano le sue proprietà, risulta un ben povero nababbo; i suoi poderi sono distese di pietra su cui si affannano le capre in cerca di pascolo. Però, il signor Vailland era determinato a scrivere un romanzo ad effetto sull’Italia Meridionale, e poiché altri filoni erano già troppo sfruttati, si rivolse al Gargano, ancora poco noto alle platee avide di sensazioni forti.

Un vecchio feudatario sensuale, cinico, sterminatore di vergini, spietato sfruttatore di plebi sottomesse gli andava bene per un romanzo a tinte fosche impostato sulle differenze sociali nell’Italia Meridionale. Non si può negare che condizioni simili esistano nel Sud non nel Gargano, dove il ricco autentico non esiste. Sovente la ricchezza è più stracciona della povertà, per cui è difficile distinguere l’aristocratico dal manovale. Eppure, nel romanzo dello scrittore francese non c’è un personaggio pulito; prostitute, ruffiani, pervertiti, aguzzini si rincorrono in lubrico carosello nel perfetto scenario garganico ruotando attorno al tema di un vecchio gioco ormai in disuso, appunto « La legge ».

E’ un vecchio, abusato cliché cui ci ha abituati la letteratura sull’Italia Meridionale, ma il Gargano non può entrare nel gusto di scrittori criminal-folcloristici proprio perché nella sua storia non ci sono tradizione fosche. La gente è pacifica, di indole mite, forse un po’ pigra, aliena dalla violenza e dal delitto. Sono uomini di scorza ruvida, spinosi come i giganteschi fichi d’india che crescono nella pianura spalancata verso il lago, forse inclini a mettere le mani su piccole cose che non gli appartengono; capre, giumente, muli sorpresi liberi nel pascolo. Dopo averli conosciuti, si comprende che sarebbero generosi, ospitali, se lo potessero. Non potendo offrire altro, diventano amici di chi li avvicina, persino fastidiosi nelle manifestazioni di eccessiva cordialità non sempre disinteressata.

Bellissimo e scenografico, Carpino è forse il villaggio più povero del Gargano, con poca terra da coltivare, assai lontano, nella pianura sconfinante col lago di Varano, con greggi di capre sparse a brucare la scarsa erba sui petrosi pascoli della montagna. Se gli uomini fossero nati inclini alla violenza, nessuno se ne sarebbe stupito; l’ambiente e le condizioni in cui vivono li avrebbero giustificati.

Invece, come tutti i garganici, sono duri solo in apparenza, subito sciolti con coloro che cercano di comprenderli.

Giocano ancora alla « Legge »? Sì, giocano ancora, ma non nei modi con cui li ha descritti Roger Vailland. Si riuniscono in cinque o sei nell’osteria, ordinano alcune bottiglie di vino, o di birra, ed incominciano a puntare con le dita, chiusi in un cerchio di complicità impenetrabile. Si direbbe che congiurino, e giocano soltanto una specie di morra per eleggere il capo, colui che detterà legge. Egli ha il diritto insindacabile di far bere il vino, o la birra a chi vuole lui, mentre tutti gli altri pagano.

Una sola seduta mi convinse che « la legge » è un gioco noioso per chi, come me, non sa penetrare nell’atmosfera di mistero che i giocatori creano, senza comprendere che quel gioco può essere, per alcuni, l’occasione di bevute gargantuesche quasi gratuite. Inoltre, c’è il piacere della beffa, il sorriso agro degli esclusi, la gioia di risate irrefrenabili quando qualcuno si ribella alla « legge ». E’ un gioco molto diffuso nel Meridione, chiamato talvolta passatella, talvolta tocco, talvolta legge.

Un tempo, chi era eletto capo della piccola assemblea di bevitori, aveva il diritto di offrire il bicchiere a chi voleva, ma anche di processarlo dicendogli tutto ciò che pensava di lui, di sua moglie, dei suoi figli, delle sue sorelle, salvato dall’immunità che gli derivava dalla sua condizione di capo. Accuse di furto, adulterio, violenza carnale, pecoraggine erano pronunciate a mezza voce nel fumoso stanzone dell’osteria: cadevano come macigni sull’accusato cui il vino ricevuto dono si trasformava in fiele. Ma nessuno osava ribellarsi, quella era la legge.

Ciò accadeva un secolo addietro, anche i più anziani ne ricordano le movimentate notti invernali trascorse nel gioco della « legge », trasformatosi ora in modesto antagonismo bibitorio. Sempre più raramente, distratti da altri intere (il cinema, la televisione, una certa facilità di amoreggi con le ragazze), si seggono attorno al tavolo, eleggono il capo e attendono la designazione col pomo d’adamo che gli guizza sotto la pelle del collo, tutti in succhio nella speranza di bere quasi gratuitamente alcuni bicchieri di vino.

La sera quando gli uomini tornano dal lavoro nei campi, il palcoscenico della piazzetta si anima d’improvviso. Seduti sui bassi scranni, gli anziani che hanno trascorso le ore in silenzio, cacciando con pigre mani la molestia aggressiva delle mosche, si risvegliano dal letargo per commentare la vita di tutti coloro che sfilano sotto i loro occhi distratti, uomini di pelle scura, conciata e arrostita dal sole, gli sguardi allucinati dal lungo riverbero luminoso, la schiena stroncata dalla fatica della mietitura.

Nelle ore torride della canicola Carpino sembra un paese ubbriaco di luce, un paese stordito dalla vampa, reazioni con le viuzze deserte e la piazza devastata dal spietato. Sono le ore che preferisco in questo fantasioso villaggio, mi eccita il pensiero di camminare sul sonno della gente abbandonata alla siesta, fra le galline che chiocciolano razzolando fra la spazzatura della strada, fra gli asini legati al muro e con le frange inerti a sfiorare il suolo.

Tutto è immobile nella luce arroventata, il silenzio è profondissimo, il ronzìo delle mosche instancabili rimbomba con fragore. Da un’altana, dal terrazzo di uno scoglio, l’occhio ha tutto l’orizzonte per sé, domina la dilagante pianura gonfia di umori caldi. Dal torrioncino di pietra gialla del castello, su cui sventola l’afflitto pavese di povera biancheria intima stesa ad asciugare, il lago di Varano appare come sommerso dalla cateratta di luce che crolla dal cielo sterile.

L’acqua si stempera in tonalità grigio-azzurre, diversificandosi dall’Adriatico non per il sottile istmo di sabbia gialla ma per il variare dei colori; verde fondo il mare, grigio spento il lago.

Tra i campi gialli di stoppie, le cicale si eccitano stridendo con frenesia monotona, ubbriache di sole. Splendono i pomidoro come vampe nell’aria infuocata; sulle pale immense dei fichi d’india, un freddo metallico che non dà ristoro all’occhio abbacinato, gonfiano i frutti spinosi, grossi, polposi, dolcissimi.

Folgorato dal sole, Carpino attende il brivido delle prime ombre serali per ridestarsi; allora il «Caffè Vittoria» e la piazza incominciano a popolarsi per i quotidiani, pigri pettegolezzi, cui il cantilenante dialetto toglie ogni asprezza.

Dopo tanto sole, non si ha più l’energia necessaria alla cattiveria autentica; gli antagonismi, le avversioni, si esauriscono in placata maldicenza, tutti hanno coscienza di essere simili agli altri nei difetti e nelle qualità, di condividere un destino poco benevolo che tutti eguaglia.

Carpino è un paese bellissimo e malinconico. Qui nessuno canta, nemmeno le donne che al tramonto, strette nell’ombra avara delle case basse, rammendano panni lavati e rattoppati fino allo spasimo. L’esistenza non è gioconda per questi uomini, persino le cantilene per addormentare i bambini sembrano tramate di pianto; echeggiano la tristezza congenita di questa gente che ha come scenario il fantasioso villaggio arroccato sul pinnacolo di una collina battuta dal vento e folgorata dal sole.

Sono nenie che parlano di morte già vicino alla culla, una preparazione all’esistenza dura, quasi disumana, da incominciare subito; coloro che sono appena giunti devono abituarsi presto alla realtà della fatica tremenda cui, per sopravvivere, saranno dannati nel paesaggio di struggente seduzione, ma ostile all’uomo.

Carpino 1929 “bianca sul gran piano verde” di Riccardo Bacchelli

Nella primavera del 1929, sulle pagine della “Stampa” vedono la luce alcuni interessanti articoli che Riccardo Bacchelli (foto del titolo; ndr) scrive dal Gargano, raccolti poi nel libro “Italia per terra e per mare” (1952). Il futuro autore del “Mulino del Po” è ospite a San Marco in Lamis dell’amico Giustiniano Serrilli che non vede dai tempi dell’Università a Bologna. Partendo dalla "rusticale e civile cittadina", va alla scoperta di quegli aspetti del Promontorio ancora oggi di forte valenza ambientale. Impressioni di viaggio che conservano “intatte vibrazioni di sentimento e forte caratura poetica”.

Nel reportage “Strade e paesi”, ripubblicato da Filippo Fiorentino nel volume “Nel Gargano dei grandi viaggiatori” (ed. Grenzi), percorre una bella strada che da Jacotenente, cuore della Foresta Umbra, porta a Vieste passando per Mattinata (foto 1, Baia delle Zagare): costruita per esigenze belliche dagli ingegneri della Regia Marina, ora i pochi automobilisti che vi transitano potrebbero sbizzarrirsi in corse spericolate, se i muli dei carbonai e i cavalli riottosi dei carrettieri, poco abituati al moderno traffico, non si parassero improvvisamente davanti in qualche tornante. “Nel qual caso – commenta – il severo e chiuso volto del montanaro garganico esprimerà, con disdegno d’ogni parola, tutte le maledizioni e i malauguri contro la polverosa e spetezzante civiltà meccanica”.

La strada, ricca di mandorleti, boschi di querce e lecci, “erma, solenne, accompagnata dalla vista del mare, si inoltra fra selve, selvette e prati”. Termina a Vieste, che appare adagiata “sopra il declino d’uno scoglio nel mare, bianca, moresca e marina, simile nell’indolenza a una bella creatura spossata voluttuosamente dal bagno, che si sia sdraiata sul letto dello scoglio per prendere il sole facendosi baciar i piedi dal mare”. Vieste “dal nome leggiero e gentile come un primo bacio socchiuso”, è illuminata da un sole vivo, da una luce già estiva. Due grandi golfi e “due spiagge fuggenti, lunate”, si aprono a levante e ponente. Nella Marina Piccola si tirano a secco le paranze; su uno scoglio vicino si erge il faro. Dietro, sonnecchia il Castello: i suoi cannoni non rimbombano più dagli spalti.
Il piroscafo bisettimanale delle Tremiti anima “la gentilezza deserta” delle onde primaverili. Sulle scogliere del golfo volano stormi di gabbiani. Alcune massaie versano in mare cestelli di immondizia, e i “rauchi volatori vi s’avventano, facendo godere la più bella giostra e schermaglia e ronda di voli che si possa desiderare”.

Trabucchi e torri puntellano la litoranea tra Vieste a Peschici: “Fremono al vento fresco le lunghe braccia, le gracili impalcature e i cordami delle gran reti a bilancia, che si sporgono sull’Adriatico pescoso dalle rupi nelle vicinanze d’ogni paese della riviera – commenta. – Dappertutto vi sono gabbiani, come, dappertutto, la storia racconta terremoti e rovine di saraceni, di pirati dalmati, di turchi bestiali in questi paesetti, ai quali oggi il mare dà tanta pace quanta già diede guerra nei tempi andati”. E continua: “La maggior dolcezza della costiera è da Pèschici a Rodi, che si guardano di lontano, candide sulle loro due rupi alte al capo della spiaggia piena d’amenità. Pèschici era un paese poverissimo, senz’acqua, affastellato sullo scoglio. La gente viveva in parte in caverne scavate dentro la roccia tenera. Veramente a Pèschici la miseria stringeva il cuore, e vi si conosceva la mancanza di molte cose di prima necessità. Ebbene, Pèschici ha nome d’essere il paese che dà le più belle ragazze (“quatrarë”; ndr) del Gargano. E devon esser belle assai, giudicando da quel che ho potuto scorgere passando. Ornate di collane e orecchini maiuscoli di vecchia filigrana, velate col fazzoletto o collo scialle, laboriose e riposate, salde donne sono le garganiche; contente dei loro uomini, contenti questi di loro: gran principio di ordine e di civiltà”.

Passato Pèschici, Bacchelli attraversa l’ultimo lembo della grande pineta (Marzini) che riveste quel tratto di costa, prima di lasciare il posto agli aranceti di Rodi Garganico. Inoltrandosi verso l’interno, prende la strada che conduce a Vico, “entratura alla regione dei grandi boschi interni”. Da Vico si reca a Ischitella, “aprica e ben murata”, dove un Francesco Emanuele Pinto, principe d’Ischitella, elevò ai primi del ’700 “un palazzo di castigata grazia mirabile” (foto 2). Approfitta poi di un lento tramonto “aureo ed argentino” per recarsi a Carpino, “bianca sul gran piano verde” e a Cagnano. Osserva il Monte d’Elio incupirsi contro il cielo crepuscolare, e la vasta, immota palude del lago di Varano trascolorare pian piano al tramonto. “Questo lago, e l’altro di Lesina – spiega – diffondono la malaria in questa parte del Gargano, fertile e pur bellissima. Nei prati e nei seminati, più cupi, nelle rocce e nei monti, nel color del mare e degli uliveti pallidi, c’è una gravità, una melanconia, che ben si sposa e si rivela con il tramonto”.

Sul Varano, che durante la prima guerra mondiale fu un’importante base d’idrovolanti “e che potrebbe esser porto superbo” (foto 3), sono state aperte due foci “per renderlo salino, risanarlo e impedir la malaria”. I tentativi di bonifica sono una storia troppo lunga e ardua da raccontare, ma quando era palude d’acqua dolce, il Varano era pescoso, e i suoi gustosi capitoni erano “celebratissimi”. Ora anche i capitoni lo stanno abbandonando.

Teresa M. Rauzino
Corriere del Mezzogiorno
da puntodistella.it

«Approffittai d’un lento tramonto aureo ed argentino per scendere coll’automobile a Carpino, bianca sul gran piano verde»

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