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Antonio Basile (Ufficiale)

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LA MAGICA FESTA DELLA TARANTELLA DEL GARGANO NEL LI ZITE ‘NGALERA

Il mese scorso Roberto De Simone ha compiuto 90 anni e molti sono stati gli attestati di stima e di auguri apparsi sui giornali e sui social. Ce n’è uno che ha tratto la mia curiosità, quello del Teatro delle arti visive che ha pubblicato un brano di un opera famosa nel 700 che il maestro rimise in scena nel 1979. Dalle movenze dei personaggi con l’audio disattivato mi accorgo che c’è qualcosa di familiare e il pensiero va subito alle riprese del Piccolo Teatro di Milano e allo spettacolo «Sentite buona gente» di Roberto Leydi del 1966.
Questo brano tratto da Li Zite ‘Ngalera che De Simone fece nel Maggio Musicale Fiorentino del 1979 risulta emblematico per la poetica del maestro. Ci troviamo in una notte del carnevale (che nell’opera viene solo menzionata) De Simone, da esperto drammaturgo la mette in scena. Gli occorreva, intanto un pretesto musicale per realizzare questo carnevale. Nell’opera vi è una scena fra Rapisto (Virgilio Villani) e Ciccariello (Maurizio Paolillo) travestito che in questo duetto accennano appunto al carnevale. Il duetto è scritto su un tempo di sei ottavi (tipico della tradizione popolare campana) quindi il maestro ne recepisce la frase finale, cioè la conclusione del duetto e con questa frase ne sviluppa con un basso articolato sulle armonie della Tarantella del Gargano, cantata dall’eclettico Pino de Vittorio, una magica festa. Con grande coerenza compositiva il testo di questa “Tarantella” è il: Vurria addeventare suricillo, canzone famosa edita dalla NCCP che sia Bernardo Saddumene(librettista) che Leonardo Vinci(compositore) lo estrapolano dalla tradizione popolare aprendo con questa l’opera. Insomma De Simone da esperto arrangiatore inventa una scena ed un canto rimescolando testo e musica della stessa opera. Interessante la sovrapposizione della cantante lirica, che in tal modo, esplica il concetto di TEATRO TOTALE insita nella poetica desimoniana(quella del primo periodo dell’artista) in cui il teatro diventa un luogo dell’immaginario, dell’onirico, immerso in un mondo dell‘illusione (il cu termine è composto de In-Ludere: volgere in gioco cit. M. Niola) per un GIOCO SUPREMO quale IL TEATRO. (F.Cutolo)

Tra oralità e scrittura: il mistero della “Tarantella del Gargano”

Tratto da blogfoolk.com

Foto di Giuseppe Michele Gala

Questo scritto nasce come piccolo approfondimento di una testimonianza di Roberto De Simone ascoltata per caso su YouTube e vuole essere anche un omaggio per il compimento dei suoi novant’anni. Il Maestro napoletano poneva l’attenzione sugli storici rapporti tra oralità e scrittura e tra musica ‘colta’ e popolare, ma anche su come vi sia oggi la necessità di ulteriori riflessioni. La cosiddetta “Tarantella del Gargano” è l’esempio che egli indica ed è anche quello da cui partirò in quest’articolo  Una delle prime tarantelle scritte su pentagramma è quella di Athanasius Kircher che fa parte della sua Musurgia Universalis del 1650 ed è inserita nel contesto del fenomeno del ‘tarantismo’. Il brano rappresenta l‘”Antidotum tarantulae“, ovvero la cura dal morso della tarantola che, grazie alla ostinata ripetizione della stessa formula ritmica e accordale, conduce ad una sorta di stato catartico di ‘trance’.

Non ci è dato sapere fino a che punto questa struttura sia stata elaborata da Kircher in base a un precedente testo scritto oppure se la abbia ascoltata in Italia e l’abbia trascritta a posteriori. Proseguendo il nostro ideale viaggio arriviamo ai primi del Settecento quando  Gaetano Greco era insegnante presso l’allora Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo di Napoli ed aveva come allievi personalità musicali come Leonardo Vinci e Giovanbattista Pergolesi. Il Maestro napoletano è noto soprattutto come autore di ‘partimenti’, ovvero la tecnica didattica allora utilizzata al fine di trasmettere  una modalità improvvisativa  e compositiva pratica. 

 La sua tarantella fu probabilmente composta con questo scopo e il basso ostinato veniva utilizzato probabilmente come partimento per le esercitazioni degli studenti nel conservatorio napoletano; di Greco ci rimangono anche molte danze dal sapore popolare, come la sua versione della famosa canzone “Il ballo di Mantova”. D’altra parte questo suo stilema al confine tra ‘colto’ e popolare si ritrova anche in opere dei suoi allievi, si pensi al carattere popolareggiante di molte ‘arie’ de “Li zite ‘ngalera” di Leonardo Vinci. Ritornando a Gaetano Greco, proponiamo l’ascolto della sua Tarantella indicandone sotto l’andamento del basso ostinato. 

Si notino le similitudini con la Tarantella di Kircher ma soprattutto con quella ormai nota come “Tarantella del Gargano” che in realtà proviene in modo specifico da Carpino, vero centro nevralgico di questo delicato stile di canto d’amore delle montagne del Gargano e qui interpretata da uno dei più importanti Cantori di Carpino (come viene indicato in un CD a cura di Eugenio Bennato) 1. La voce solista è quella di Andrea Sacco.

‘Sta donnì

I comme dee fari

Pi amà sta donnì?

Di rose dee fare

Di rose dee fare

Di rose dee fare

Nu bellu ciardini

Nu bellu ciardini

Di rose dee fare

Nu bellu ciardini

‘Ntorni, d’intorni lei

‘Ntorni, d’intorni lei

‘Ntorni, d’intorni lei

Annammurari

Lei annamurati

‘Ntorni, d’intorni lei

Annammurari

Di prete preziosi e ori fini

Mezzo ce la cava ‘na

Mezzo ce la cava ‘na

Mezzo ce la cava ‘na

Brava funtani

‘Na brava funtani

Mezzo ce la cava ‘na

Brava funtani

E ja ja ca corri l’acqua

E ja ja ca corri l’acqua

E ja ja ca corri l’acqua

Surgentivi

L’acqua surgentivi

E ja ja ca corri l’acqua

Surgentivi

‘Ncoppa ce lu mette ‘na

‘Ncoppa ce lu mette ‘na

‘Ncoppa ce lu mette ‘na

Auciello a ccantari

N’auciello a ccantari

‘Ncoppa ce lu mette

N’auciello a ccantari

Cantava e repusava

Cantava e repusava

Cantava e repusava

Bella diceva

Rispetto alle altre forme similari, come la tammurriata napoletana, la pizzica salentina, la tarantella calabrese e siciliana, la “Tarantella del Gargano” ha un movimento complesso che sintetizza la tonalità maggiore e minore attraverso il movimento relativo di due cadenze perfette:  V—I (in Do maggiore) V—I (in La minore), ciò farebbe pensare ad una suo origine ‘colta’ e quindi scritta.

Questo stile di canto si distingue anche per gli scivolamenti infratonali della voce, l’ambiguità maggiore / minore e il rapporto metrico ‘due contro tre’ che si verifica tra la voce solista e l’accompagnamento ritmico tradizionalmente dato da chitarra battente, chitarra a sei corde (detta ‘francese’), tamburello e nacchere.

A questo punto ci si pone una domanda: la Tarantella del Gargano deriva da una struttura scritta preesistente, come il già visto partimento di Gaetano Greco, o è il contrario? La risposta è difficile quanto dire se sia nato l’uovo o la gallina. Certo è che ancora oggi esiste nella tradizione orale del Sud Italia.

De Simone parla di un nutrito gruppo di napoletani, tra cui sicuramente dei musicisti, che nel Seicento si sarebbero rifugiati in un’isola del Gargano a causa della peste e lì sarebbe potuta avvenire la contaminazione.

Proseguendo il cammino storico di questo canto, il topos della “Tarantella del Gargano” arriva fino all’Ottocento quando il compositore francese Camille Saint-Saens ne fa una versione per flauto, clarinetto e pianoforte, ancora una volta ritroviamo il basso ostinato.

Ritroviamo ancora lo stesso basso ma quello che più è sorprendente che il compositore del ‘Carnevale degli animali’, il quale in fatto di parodie musicali se ne intendeva molto, ha preso probabilmente come spunto un tarantella specifica che è quella detta ‘dell’avena’, ovvero il canto “Lu Passariellu” che presenta molte similitudini con la Tarantella di Sannicandro. Questo canto lo ritroviamo oggi in una versione borderline e molto barocca, rielaborato (quindi riscritto) dell’Arpeggiata di Christina Pluhar, interpretato da Lucilla Galeazzi e Marco Beasley nell’album dal titolo kircheriano “Antidotum Tarantulae”, che ascoltiamo quindi in modalità di ‘oralità secondaria’.

O re, re, lu passariello ‘nta ll’avena

O re, re, lu passariello ‘nta ll’avena

E si nun lu va’ a parà

E si nun lu va’ a parà

E si nun lu va’ a parà

Tutta ll’ avena se magnarrà

’O riavulo, o riavulo, stanotte

’O riavulo, o riavulo, stanotte

Mugliereme è caduta

Mugliereme è caduta

Mugliereme è caduta

Da lu liette.

’O riavulo, o riavulo, stanotte

’O riavulo, o riavulo, stanotte

La jatta s’ è magnata

La jatta s’ è magna

La jatta s’ è magnata

Li cunfiette

Pigliatella la palella e ve’ pe foco

Va alla casa di lu ‘nnamurate

Pìjate du’ ore de passa joco

Si mama si n’addonde di chieste joco

Dille ca so’ state faielle de foco

Vule, die a lae, chelle che vo la femmena fa

Luce lu sole quanne è buone tiempo

Luce lu pettu tuo donna galante

In pettu li tieni dui pugnoli d’argentu

Chi li tocchi belli ci fa santu

Chi li le tocchi ije ca so’ l’amante

Im’ paradise ci ne iamme certamente

Vule, die a lae, chelle che vo la femmena fa

Come ultima tappa del nostro viaggio tra ‘colto’ e popolare proponiamo una tarantella nata nella tradizione di Carpino interpretata ancora da Marco Beasley e presentata nel precedentemente citato CD dell’Arpeggiata proprio con il titolo “La Carpinese” in cui emerge un evidente arrangiamento tra oralità e scrittura:

Pigliatella la palella e ve’ pe foco

Va alla casa di

Va alla casa  di

 lu ‘nnamurate

Va alla casi di lu ‘nnamurate

Pìjate du’ ore de passa joco.

Si mama si n’addonde di chieste joco

Dille ca so’ state

Dille ca so so stato.

Dille ca so stamo  faielle de foco

Vule, die a lae, chelle che vo la femmena fa.

Da questa versione sono partito per trascriverla in una versione facile per 3 chitarre, rifacendo il percorso dall’oralità alla scrittura:

Il problema del rapporto tra l’oralità e la scrittura, tra il ‘colto’ e il popolare è di per sé molto complesso. Tuttavia, può diventare un’opportunità di riflessione dalle molte sfaccettature su un argomento di cui studiosi di varie discipline stanno indagando da tempo. Pertanto, una conclusione, sia pure provvisoria, sarebbe un modo frettoloso per liquidarlo. In questa sede, basti dire che alcune forme cicliche e ripetitive nate nel XVI secolo dall’incrocio tra la strada e la corte, come la tarantella, la passacaglia, la ciaccona, la follia, si ritrovano sul terreno comune dell’improvvisazione dettate dalla contingenza collettiva e dalla sensibilità e creatività individuale, nel momento in cui vengono stilizzate e scritte diventano composizioni. Nota De Simone che non possiamo sapere con esattezza come storicamente siano state applicate queste prassi e per eseguirle non ci possiamo solo affidare alla vaghezza e imprecisione del segno scritto. Ci dobbiamo solo appellare, dunque, da una parte allo studio accurato delle prassi musicali antiche attingendo dai trattati (pensiamo solo all’aspetto ritmico nella musica barocca), dall’altra ad una catena di testimonianze orali che ci riportino al contesto originario. La tradizione musicale orale ha bisogno di essere in qualche modo di essere  annotata, ma anche la musica scritta,  come sostiene Roberto Leydi, ha una tradizione orale. Questo, se non una conclusione, può essere sicuramente un valido punto di ripartenza. 

Francesco Stumpo

Nel 1976 lo spettacolo intitolato “La tarantella del Gargano”

Estratto da “(Non) c’è musica e musica. Il folk revival di Pino De Vittorio” di Giovanni Fornaro

Giuseppe De Vittorio nasce nel 1954 a Leporano (Taranto). La famiglia materna è di origine contadina e del luogo, quella paterna si occupa di pesca e viene da Gallipoli (Lecce).
Negli anni cinquanta e sessanta, gli ultimi esiti della cultura contadina della Puglia meridionale sono fortemente declinanti ma ancora vivi e questo segna indelebilmente il futuro cantante, il quale assorbe dalle famiglie di origine anche modi tradizionali del «fare» musica che riattiverà successivamente.
Qualche canzone già l’avevo imparata in famiglia. […] Anche le sorelle di mio padre e mia nonna suonavano il tamburello, cantavano le pizziche. […]
Io ho imparato [a suonare] il tamburello da ragazzino, da una mia zia di Gallipoli che lo suonava divinamente.

Nel 1975 De Vittorio si iscrive all’Università di Firenze, insieme con altri amici tarantini come Gianni Castellana e Fulvio Sebastio, impegnandosi subito, oltre che negli studi, a organizzare feste serali e happening in cui si canta e suona per puro divertimento. De Vittorio «arrangia» i brani, predisponendo le diverse parti vocali:
Si finiva di studiare e si cantava. Ero dotato di una mia naturale impostazione vocale e intonazione e suonavo la chitarra, ero un autodidatta. La sera, con questi amici, abbiamo cominciato cantare brani della Nuova Compagnia di Canto Popolare. Provavamo villanelle a tre voci e io […] riuscivo a dare le «voci» delle varie parti, a orecchio, agli altri due ragazzi.
La formazione è ancora minimale: voci, chitarra, tamburello. Il gruppo non ha ancora assunto una denominazione definitiva. Il passaggio da una dimensione puramente ludica ed estemporanea del suonare e cantare insieme a una in grado di innescare un processo di semi-professionalizzazione avverrà grazie ad Angelo Savelli, che poi con Pupi e Fresedde svolgerà una lunga carriera teatrale.
Una sera siamo a Ponte Vecchio […]. Incontriamo casualmente Savelli, che non conoscevamo. Queste nostre performance estemporanee lo interessano, così mi invita a vedere le prove di un allestimento di un testo di Čechov per il quale faceva l’aiuto regista al teatro di Pistoia.6 […] Entrare in questo teatro e rimanerne affascinato, è stato un tutt’uno. Era la prima volta: il palcoscenico, i palchi, le prove con questi attori bravissimi (come Paila Pavese, Marcello Batoli)…
Procede in parallelo una utile estensione dell’organico: A noi si era unito il flautista di origine calabrese Michele Marasco, che suonava il traverso e successivamente è diventato un grande flautista solista. Studiava al conservatorio. Conoscemmo anche David Blazer, un americano che studiava medicina e suonava bene violoncello, violino e mandolino, tutti ad altissimi livelli. […] Lui ci presentò un notevole chitarrista italo-americano suo amico, John La Barbera, di origine siciliana, che suonò a lungo con noi.
Pupi e Fresedde riescono a inserirsi nel circuito delle feste dell’Unità e della musica dal vivo.
Savelli ci propone di fare un piccolo concerto di brani della NCCP per il festival dell’Unità di Stia (Arezzo). […] Noi, con pochi costumi e con un tipo di teatro da strada, già facevamo una sorta di teatro «sperimentale», unendo musica, danze e costumi particolari.
Subito dopo, il 6 maggio e ancora il 16 luglio 1976, ad Arezzo, il gruppo rappresenta uno spettacolo intitolato La tarantella del Gargano che potremmo considerare come vero atto di nascita di Pupi e Fresedde perché, esteso l’organico, testimonia dell’interesse della formazione pugliese per repertori diversi da quelli campani. Articoli di stampa attestano la denominazione della band, nonché l’origine e il repertorio di riferimento: «Gruppo Pupi e Fresedde di Taranto, spettacolo di canzoni popolari raccolte e rielaborate da Roberto De Simone».

Quella prima volta di Beppe Lopez al Carpino Folk Festival

18 maggio 2009 alle ore 20.18
Antonio Basile
Ciao Beppe non avendo ricevuto risposte alla mia email del 12 maggio le riscrivo qui.

Ciao Beppe è giunto il momento di mantenere le promesse.
Sarebbe molto gradita la sua presenza a Carpino per la prossima edizione del Carpino Folk Festival che si terrà dal 02 al 09 agosto.
Stiamo lavorando sul programma e ci piacerebbe presentare il suo libro “La Scordanza”.
Lei ha dei suggerimenti su come si potrebbe impostare la presentazione?

18 maggio 2009 alle ore 21.03
Beppe Lopez
potremmo esserci io e un paio di interlocutori: un letterato e un intellettuale-politico. oppure si potrebbe coinvolgereì il solo Giovanni Moro (il figlio), che io però non so come rintracciare. oppure potrebbe esserci un’idea “a due”: io e Roberto Cotroneo (abbiamo tutt’e due scritto un romanzo sugli anni settanta, ma profondamente e significativamente diversi). oppure io e Carofiglio (io, un “ragazzo” del quartiere popolare barese libertà, e lui un “ragazzo” del quartiere-bene murattiano. se ti va, riparliamone a voce (il mio tel.: 339….)

27/06/09, 11:21
Antonio Basile
Ciao Beppe perchè invece, con l’occasione della presentazione del tuo volume, non rilanciamo dal Carpino Folk Festival l’appello per la nomina a Senatore a vita di Giovanna Marini.
Secondo me con te, Giovanna Marini altro esponente firmatario dell’appello, ad es. Alessandro Portelli potremmo realizzare una bella serata e sostenere la causa che non possiamo non condividere.

27/06/09, 16:21
Beppe Lopez
SAREBBE BELLISSIMO. CI STO SENZ’ALTRO. del resto, tempo fa mi ha telefonato uno del Carpino Folk festival facendo riferimento alla nostra ipotesi e ottenendo da me la disponibilità a venire: aspettavo notizie. MA LA TUA IDEA E’ PROPRIO BELLISSIMA: IO E PORTELLI – E QUANT’ALTRI – A LANCIARE LA CAMPAGNA PER GIOVANNA MARINI SENATRICE A VITA,. anche in risposta al degrado della politica attuale!


Niudd’ se le ricorda, mo, le ultime tre volte che invece si è mettuto a piangere, qualche mese apprima di venirsene qua.
La prima fu a Carpino. Sì a Carpino, sopr’al Gargano.
Quante volte che l’avevano sentuta insieme, lui e Saverin’, la Tarantella di Carpino, la canzone più bella, la melodì più accorata, la musica più addolorata, la voce più struggente, il ritmo più soave di cui rècchia umana abbia mai goduto. No, non quella della Nuova Compagnia di Canto Popolare o quella di Musicanova. No. Quella è robba di recupero. Ma proprio la Tarantella registrata dal vivo, il trenta dicembre del 1966, da Roberto Leydi e Diego Carpitella a Carpino (Foggia, Puglia): canto e chitarra battente di Andrea Sacco, più le due chitarre francesi di Michelantonio Maccarone e Gaetano Basanisi, e le castagnole di Rocco Di Muro. Quel dì Andrea e i compagni suoi avevano semplicemente cantato e sonato, come cantavano e sonavano a ogni serenata, a ogni sponsalìzio, a ogni festa paisana. Solo che quel trenta dicembre del 1966 ci stava un registratore. E solo per questo fatto avvenette il miracolo. Quella che era stata per secoli una canzone poveredda, di poveriddi e per poveriddi diventò un monumento, una delle sette meraviglie del mondo che da sola giustificherebbe l’esistenza dell’Unesco, l’aria più celestiale, la ballata più ammagagnata, la poesì più misteriosa, le strofe più arabescate, il ritornello più strascicato, l’intonazione più affatturata che fantasì umana potesse immaginare e alla quale polmone, cannarile, lengua e bocca umana potessero dare fiato.
Il trentatré giri che la conteneva (I Dischi dell’Albatros, Vedette Record, Italia vol. 1, I balli, gli strumenti, i canti religiosi, antologia a cura di Roberto Leydi) era quello più strutto di tutta la collezione sua, che pure ne vantava di capolavori. Da quando Saverin’ teneva appena tre mesi, sino all’ultima volta che stette con lui, apprima di scìrsene a Bologna – che ne teneva oramà ventitré di anni – se la sono sentuta cento, mille, diecimila volte la Tarantella cantilenata da Andrea.
E che gli va a capitare, quando se ne stava già a solo a solo come una mummia dentro a quella grande casa di campagna? Gli va a capitare che un compagno, Alberto, l’ultimo che si ostinava a tentare di tirarlo fuori da quella depressione, gli domandò se volesse accompagnarlo a Rodi Garganico – lui è originario di quel paisotto sopr’al l’Adriatico – perché teneva da sbrigare certe pratiche al Comune a proposito di un terreno ereditato che stava a vendere. E Niudd’, senza convinzione, si facette trascinare.
Succedette che, per certe complicazioni burocratiche, avevano da rimanere là pure il dì appresso. Allora fu lui a dire ad Alberto che la voleva vedere almeno per una volta Carpino, patria di quei cantatori leggendari, di quella musica senza tempo, di quelle parole che più che foggiane parevano turche, turchine e che comunque non aveva mai capisciuto checcosa volessero significare esattamente (e di cui, intenzionalmente, mai ha cercato il testo scrivuto). Voleva vedere com’era fatto quel mucchio di case e casaredde che una magì aveva da tenerla se là, proprio là, qualche uno inventò quella magica maniera di cantare. Così decidèttero di scirci a mangiare qualcheccosa, quella sera stessa. E là avvenette il prodigio. Parcheggiata la macchina, stavano caminando tra quelle viòttue, quando si sentette una musica da lontano. Evidentemente una festa paisana. Sonavano e cantavano. Mano a mano che si avvicinavano, Niudd’ riconoscette quella musica e pure quella voce. Appena sbucarono dentro allo spiazzo, la scena fu chiara: Andrea Sacco, classe 1911, proprio lui, lui in persona, che chiaramente campava ancora, stava a cantare la Tarantella di Carpino. È stato, per Niudd’, uno dei momenti più emozionanti della vita. Cercò istintivamente Saverin’ con gli occhi, con la capa, col core, con passione, con dolore, con disperazione, e non ci stava.
Piangette ininterrottamente per tutt’e tre le volte, una dopo l’altra, che Andrea Sacco cantò, ricantò e arricantò a furor di popolo quella nenia dolce e disperata.
La seconda volta che piangette, ma certo non come a Carpino, fu dentro a un “centro sociale” romano dove lo aveva trascinato sempre quel compagno suo che non aveva ancora perduto la pascienza. Cantava e sonava un gruppo leccese di pìzzica.
Ci sta da precisare che era stata la “musica popolare”, quella ricchezza e quella bellezza di un mondo antico di poveriddi, mo riconosciuta da tutti come forma classica di comunicazione culturale e sociale, era stata quella musica che a lui aveva regalato o svelato radici che non teneva o non sapeva di tenere sino a quando era rimanuto dentro alla città sua di origine, notoriamente commerciale, materiale e pratica pratica. Quella musica aveva comenzato a sentirsela dentro al sangue e dentro al core con la scoperta, da “romano”, delle cantate dei braccianti di Matteo Salvatore, un analfabeta di Apricena (che poi, guarda la combinazione, è a una sckutazza da Carpino), capace d’inventarsi da solo una tradizione che pareva inesistente o forse più esattamente di adacquare e di fare rifiorire – con la fantasì, con l’allegrì e pure con le ferite sue – temi e melodì asseccate da secoli dentro a quella terra che non conosceva l’acqua. E mo Matteo viene indicato da tutti come un maestro della musica popolare, come un monumento vivente della “musica etnica”, pur essendo rimanuto sempre selvatico, solitario e, nonostante che si atteggi ad artista di varietà e a fìgghio di zòccana, disperato. Apprima Matteo, poi i Cantori di Carpino e poi ancora la pìzzica leccese. Quella musica popolare della terra nostra era diventata, trent’anni dopo, pure la radice delle emozioni e della cultura non solo musicale di Saverin’.
Dentro al “centro sociale” romano, quella sera, il violino non lo sonava Luigi Schifani, l’organetto non era quello di Pasquale Zizzari, il tamburello non lo batteva Salvatora Marzo, la chitarra non la faceva soffrire Giuseppe Ingusci, come dentro alla registrazione fatta a Nardò (Lecce, Puglia) da Diego Carpitella e Roberto Leydi.
L’aria non era nemmanco quella del giugno 1959, quando Ernesto De Martino se ne scendette verso la “terra del rimorso” con uno psichiatra, una psicologa, un musicologo e una sociologa (Giovanni Jervis, Letizia Jervis-Comba, lo stesso Carpitella e Amalia Signorelli) per studiare dal vivo la malatì misteriosa che colpisce le fèmmene muezzicate dalla mitica taranta e la cura rituale di musica, ballo, fazzuetti colorati e scenografì di frasche, fronze e acqua scorrente che sana quelle poveredde con l’aiuto di Santu Paulu meu delle tarante.
Ma il ritmo era quello. L’appassionata voglia d’identificazione di quei ’uagnuni e di quelle ’uagnedde con i cristiani che avevano campato e sofferto dentro alla Grecìa salentina era veramente trascinante. Tutti i ’uagnuni e le ’uagnedde presenti dentro a quel “centro sociale”, praticamente tutti di Roma, si mettèttero a ballare più o meno come ballavano le tarantate, misckando senza saperlo la pìzzica-taranta, la pìzzica-pìzzica e la pìzzica-duello. Non stavano a Galatina, né a Melendugno, né a Torrepaduli, ma quella musica si era infilata veramente dentro alle vene e misckata col sangue di tutti. Pure dentro alle vene di Niudd’, pure col sangue suo, ancora una volta. Così si facette pigliare dalla commozione, gli venette istintivamente il bisogno di condividerla con Saverin’. Ma Saverin’ non ci stava. Il pianto gli salette dalle viscere. Se ne fuscette a nascondersi fuori, all’aperto, apprima che i sigghiutti gli scuotessero penosamente tutto il corpo e gli si bagnassero gli occhi.
La terza e ultima volta che Niudd’ ha piangiuto ….

“La scordanza”, il libro di Beppe Lopez pubblicato da Besa muci 2008, narra del passaggio del nostro Paese – e del suo protagonista – dalla fase pre-moderna alla modernità, dalla fase della ricostruzione a quella della perdita dell’innocenza e dei valori.
Per inseguire i suoi sogni e dare corpo al suo engagement, il “sessantottino” Niudd’ emigra da Bari a Roma per fare il giornalista politico, partecipando a quel clima in cui la liberazione veniva vissuta in prima persona. Tanto per cominciare, nei rapporti professionali e nei rapporti d’amore e di sesso. Le vicende del “giornalista democratico” si intrecciano con quelle dei colleghi “borghesi” e salottieri, del “movimento”, del femminismo, dei “compagni che sbagliano”, del terrorismo, dell’inadeguatezza del sistema politico e delle sue ambiguità. In quel clima, dopo un paio d’anni dalla nascita di sua figlia Saverin’, Niudd’ sfascia, come da copione, il suo matrimonio con Iagatedd’, la ragazza che per amore lo aveva seguito nella capitale… Niudd’ vive lo “spartiacque” della fine degli anni Settanta (emblematizzato dall’assassinio di Moro) come una brutale, indebita, devastante interruzione di un “processo di democratizzazione” nel quale si era identificato per tutta la vita e al quale aveva legato anche le sue ambizioni di avanzamento sociale e di carriera…
Doppiamente sconfitto e ferito – dal crollo del suo mondo di valori e di rapporti, e da una tragedia personale, la più grande che possa capitare a un uomo, che non vuole accettare – Niudd’ torna nel 2000 nella sua città, a sopravvivere proprio nella casa in cui era vissuto da ragazzo, in attesa e con la convinzione di poter rivedere sua figlia…
Il romanzo è diviso nettamente in due parti. Andata e Ritorno.
Nella prima, quella dell’emancipazione, della speranza, delle utopie e infine della “liberazione”, Niudd’ ricostruisce la sua storia famigliare e personale, con radici in un mondo arcaico, insieme semplice e inquieto, che si affaccia alla modernità. In questa prima parte prevale il registro letterario e, con esso, un linguaggio frutto di impasto fra italiano formale e materiale linguistico meridionale (lo stesso affilato idioletto usato da Lopez nel suo romanzo di esordio, Capatosta, caso letterario del 2000).
Nella seconda parte, “Ritorno”, quella della delusione, della sconfitta e del dolore, prevale un registro più “ragionante”, da documento umano e sociale, a tratti anche toccante e insieme ossessivamente ideologico. Qui Niudd’ fa i conti col proprio passato e col proprio insostenibile, inammissibile presente: l’assenza di sua figlia Saverina, dell’unico amore, dell’unico fiato, dell’unica ragione di vita che gli è rimasta su questa terra. Almeno così crede. Tiiene un poco di confusione in capa da qualche tempo. Non esclude nemmeno di soffrire di qualche inganno della memoria. Una scordanza? Un’amnesì? Una rimozione? Non lo sa…

BEPPE LOPEZ, torno al Carpino Folk Festival nel 2018 in Un viaggio slow a bordo dei treni delle Ferrovie del Gargano per una conversazione sul suo libro dedicato a “Matteo Salvatore, l’ultimo cantastorie”, Aliberti Editore.

In memoria

LO ‘NGAUDIO OVVERO LE NOZZE GARGANICHE DI STRAVINSKIJ

In passato su questo Blog abbiamo già parlato dell’approccio della compenetrazione tra fonti utilizzato da Roberto De Simone e vedemmo come il Maestro faceva uso delle sue ricerche condotte sul campo o di quelle realizzate da altri per confrontare i canti raccolti con quelli documentati con fonti scritte per poi rielaborarli, con il gusto e la grande competenza compositiva che lo contraddistingue, secondo il modello stilistico della tradizione. Ecco, nei giorni scorsi ho trovato un altro esempio che coinvolge Carpino e il Gargano, nell’omaggio che Roberto De Simone fa al compositore Stravinski nel 2021 al Ravenna Festival. Per l’occasione, infatti, rielabora il testo russo di Les Noces nel dialetto garganico, mettendo insieme due mondi apparentemente lontani.

Ma cosa c’entra un balletto composto da Stravinskij per i Ballets Russes di Diaghilev con un antico dialetto garganico? Come possono Les Noces debuttate nel 1923 al parigino Théâtre de la Gaîté-Lyrique diventare Lo ‘Ngaudio? Roberto De Simone riconosce nei quattro quadri in cui stravinskij divide Le Nozze (prima le usanze a casa della sposa, poi quelle a casa dello sposo, il momento della benedizione e quello del banchetto nuziale che si chiude quando gli sposi vengono accompagnati alla stanza nuziale) quel nucleo di originaria verità contadina, quell’essenza rituale, che si ritrova in epoche e culture diverse, e che nelle sue mani diviene strumento di sperimentazione e linguaggio sempre attuale. La partitura e il singolare organico rimangono intatti, mentre il dialetto che sostituisce il russo rimarca l’impeto ritmico della musica. Forse perché se è vero che dei versi tratti da antichi poemi popolari russi lo stesso Stravinskij apprezzava prima di tutto il “suono”, è anche vero che nella purezza del dialetto seicentesco la parola si fa musica.

Dell’opera – spiega Roberto De Simone – conoscevo le catene fonetiche, le rime, le allitterazioni, le frasi idiomatiche… il lampo mi colse d’improvviso, notando una profonda affinità tra Le Nozze e i canti popolari del Gargano che avevo raccolto a Carpino, a Monte Sant’Angelo, a San Marco in Lamis, a Rodi Garganico e in altri paesi della zona. Ora mi si palesavano le coincidenze fonetiche tra quei canti eseguiti sulle anomale armonie delle chitarre battenti e gli agglomerati pianistici di Igor’, magari riferiti a immaginarie corde di balalaiche. Ne ero sufficientemente convinto: occorreva trasporre il russo in un testo fonetico in lingua garganica, che avrebbe potuto ridare sonorità e significato rituale e religioso all’opera, avvicinandola alla sensibilità del nostro immaginario fonetico, in cui si invocano San Michele, la Vergine Maria, gli Apostoli, parimenti come a Mosca, a Kiev e nelle aree slave.

Quanto segue è quello che è riportato nel Programma di Sala della serata di Ravenna (12/06/2021)
Da Les Noces a Lo ’Ngaudio
È il 1912 quando Igor’ Stravinskij, ancora impegnato nella stesura del Sacre du Printemps, incomincia ad accarezzare l’idea di utilizzare, per una sua creazione, testi riguardanti i riti nuziali del mondo popolare russo.
Nel suo soggiorno svizzero, iniziato nel 1914, ha già con sé alcune raccolte di canti tradizionali, tra cui un’antologia del folklorista Pyotr Kireevsky; partendo da questi reperti la sua idea è quella di ricreare in scena la solennità di un cerimoniale arcaico e cristallizzato. La fase di elaborazione dura anni e approda alla sua forma definitiva – come balletto – quando, oltrepassato il cosiddetto “periodo russo”, gli orizzonti espressivi del compositore sono ormai mutati e tesi verso il cosmopolitismo culturale della vivace Parigi degli anni Venti.
Nel corso degli anni che trascorrono dalla prima strumentazione (1917) a quella definitiva, andata in scena il 13 giugno del 1923 al Théâtre de la Gaîté di Parigi per i Ballets Russes di Diaghilev (suo committente per l’opera), il progetto si evolve soprattutto da un punto di vista timbrico, mentre le scelte iniziali, sia relative ai testi sia all’impianto melodico-armonico-ritmico, restano in definitiva fedeli all’idea di partenza.
Pensate in prima battuta per soli, coro e orchestra; passate attraverso una fase “meccanicistica” nella quale Stravinskij vorrebbe a tutti i costi inserire – per la disperazione di Diaghilev – delle pianole automatiche in scena; superato il momento in cui il compositore s’innamora delle sonorità del cimbalom ungherese e vuole forzosamente introdurre in organico lo strumento, alla fine Le Nozze approdano a una veste sonora più radicale, sintomatica di quella sorta di prosciugamento formale che accompagna il processo evolutivo dell’estetica di Stravinskij.

Così egli stabilisce di far muovere la sua musica tra due poli opposti, cui dà precisa denominazione: il “soffio” e il “battito”. E se alle voci è destinato le souffle, nulla di più adeguato, per strumentare l’idea di battito, che ricorrere alla percussione.

Percussione in senso letterale (sono undici gli strumenti che rappresentano la categoria) più quattro pianoforti, che esaltano anch’essi l’aspetto ritmico, più che dipanare i suoni in veri, dichiarati archi melodici.
Anche perché la scelta metodica di Stravinskij può dirsi delimitata entro un diatonismo arcaicizzante e barbaro, che esplode nell’essenzialità senza tempo del rito.

E le parole, i testi, originariamente in russo e poi tradotti in francese dall’amico e poeta svizzero Ramuz, vengono rifunzionalizzati in chiave fonetica, in una sorta di frantumazione sillabica che riporta a galla schegge di un mondo all’epoca già quasi perduto e le riallinea nella modernità cinetica e cinematografica tutta nevroticamente parigina.

È proprio sui testi che s’innesta, con sorprendente gioco di analogie metastoriche, il lavoro di Roberto De Simone per Lo ’Ngaudio, versione de Le Nozze stravinskijane in lingua garganica, che nella stagione 2017 della I.U.C. (Istituzione Universitaria dei Concerti, Roma) vede la sua prima esecuzione integrale (dopo un’anticipazione campana risalente al periodo natalizio dell’ormai lontano 2008).

L’intervento del Maestro napoletano è dunque sulla parola: eppure, la sua, mantiene le caratteristiche di un’azione prettamente “musicale”, giacché egli aderisce appieno alle scelte di Stravinskij, che nelle catene fonetiche asseconda sì senso e significato verbali, ma intende mantenere in primo piano una sorta di astrazione uditiva, travalicante la parola stessa.

Il fonema è ovunque la vera operazione culturale.

Su questo sfondo epico e antinarrativo, ecco che si rappresenta Lo ’Ngaudio, come il festino di nozze veniva chiamato in napoletano settecentesco.

La scelta linguistica cade sul dialetto garganico, antiletterario (rilevato sul campo dallo stesso De Simone negli anni Settanta del Novecento), petroso, aspro, tronco e incredibilmente in sintonia con il testo originale russo cui De Simone ha fatto diretto riferimento, senza passare per la più praticata traduzione francese.
Nel rispetto del gioco sillabico, i quattro quadri e le varie scene sono tradotti comunque nel loro significato linguistico letterale. Sorprendenti sono le somiglianze nei culti di Paesi geograficamente tanto distanti: basti citare, tra i tanti elementi analoghi per senso culturale riaffioranti da entrambi i testi, l’uso della lamentazione per l’abbandono dello stato verginale della sposa o l’invocazione ai Santi Cosma e Damiano, i quali anche da noi venivano tradizionalmente invocati per la grazia del parto.

Senza tradire lo spirito originale, l’intervento desimoniano sembra anzi esaltarne l’atemporalità, da cui scaturisce senza forzature la non-necessità di collegare a un luogo prestabilito quanto rappresentato: questi è parte di tutti i luoghi e, ormai, di nessuno.

Anita Pesce


SINOSSI
Primo quadro
La casa della sposa.
Nella casa della sposa, Antonia, le comari sciolgono la treccia della fanciulla annodata con nastri simbolo della verginità. Lei piange, tra timori e speranze, così come vuole la tradizione; le consolatrici cantano in coro e invocano la benedizione della Vergine.

Secondo quadro
La casa dello sposo.
Nella casa dello sposo, Giovanni, i compagni e i genitori adornano il giovane fidanzato; insieme invocano la protezione della Madonna. La preghiera si mescola ai loro canti finché il figlio invoca la benedizione paterna (con un canto basato sulle modificazioni di un tema che nella liturgia bizantina viene di solito cantato nella Messa dei Morti).

Terzo quadro
La partenza della sposa.
Lo sposo viene a prendere la fidanzata. I genitori benedicono la coppia davanti all’icona e le due madri
lamentano ancora la perdita dei figli e li supplicano di tornare alle loro rispettive case.

Quarto quadro
Festa di nozze.
Tra pranzo, danze e bevute, si susseguono incessanti i motti di sapore paesano, i frizzi tra i convitati, le
buffonesche raccomandazioni o allusioni sessuali agli sposi, talvolta anche senza nesso e senso come accade tra avvinazzati. Infine gli sposi sono accompagnati alla stanza nuziale e la festa ha termine.


IL TESTO

In casa della sposa

Scasat’ meja

Sca… scasat’ meja trezzuccia biondella!

Ser’ la mè trezzuccia

Mammella liave mammella liav’!

Ser! Cu anell’ argient’

Mamma allisciava mamma allisciav’

Oh! gioia so’!

Illajò ohmmè!

Pettene pettenà Ntoniella anella

Pettene pettenà ricciolettella Ntonia

Gioia so, rènnena

Ahi trezza arricciala,

Nocca rossa annoccala.

Pettene pettenà Ntoniella anella

Pettene pettenà nenna ’nfunna, stienna

Pettene fitto a lu cardà

Primmi esciva sòcrema

Trista sòcrema

Spiatata sòcrema

Crudela sòcrema

Commènz’ la treccia a sbatt’

Me risbatt’

Sbatt’me risbatt’

Me batt’ e risbatt’

Nce dev’ n’altra bott’

Nce dev’ n’altra bott’

Oh mmé oh mmé,

Gioia so oh mmé

Pettene pettenà Ntoniella anella

Pettene pettenà ricciolettella Ntonia

Gioia so’ rènnena

Ahi trezza arricciala

Nocca rossa annoccala

Ricciolella Ntonia

Trezza meja trezzuccia biondella

Nò chiang’ nò chiangere nennella

Nò chiang’ palommetella,

Nò chiang’ cchiù, oi Ntoniella

No chiangere palommuzza Antoniuzza

Si tatucc’ lasce e màmmeta

Nu rescegnuolo all’uort’

Llà t’accoglie tatuccio a brazz’aperte

La gnora co lo gnor’

Mammella a brazz’aperte

Gnora mamma

Mamma gnora

Faccia argient’

Giuvannenie’ pe te lu rescegnuolo all’uort’

Vola canta ‘ncimma a la casat’

Tutta apparat’

Frischia la matenat’

notte fa la serenat’

P’ tte, sì, p’tte oi ntoniella

P’ tte oi faccia d’oro

Canta e te recreja

E pazzeja

Si ‘o suonn’ s’ntalleja

P’ la Messa te r’sveja

Ndai! Ndai!

Sient’ li sunatur’ paes’paes’

Ndai ! Ndai!

Ca puozz’ aunnà Ntoniella

Ca tu puozz’ aunnar’ ndai!

Ca puozz’ aunna’ comm’ ’o mar’

Sott’ ll’ èv’ra sott’ steva

Sott’ ll’ èv’ra sott’ steva

Lu scium’ nce curreva

E lu sciummo jev’

Sott’ ll èv’ra sott’ steva

Sott’ ll èv’ra sott’ steva

lu tammurro vatt’

E vott’ na bott’

Tozza cchiù sott’

Vir’ portn’ Ntoniuccia

D’ fiore ncoronata

P’ ghi a lu spusariz’

Capill’ pe’ capill’ ohi bionde

Fance stretta la pett’natura

Proprio miez’ d’ la cap’

E all’urdemo rossa la nocca

Oi bella Maronna dance tu na man’

Scinn’ a sta cas’ vien’vien’

Dànce tu na man’ streccia tu la trecc’

Spettna tu a Mtoniella anella

Ricciolettella biondella

Pettene pettenà Ntoniella anella

Pettene pettenà ricciolettella Ntonia

Gioia so’ pettena Ntoniella anella

Pettene pettenà ricciolettella Ntonia

Ohmmé rènnena Ntoniuzza a pettenà

Nocca rossa annòccala

Pettene pettenà Ntoniettella

Pettene pettenà biondolettella Ntonia

Pettene pettenà jonna nfonna stienne

Pettene stritto a lu cardà

Priesto lesta piglia lu laccett’

E la nocca rossa va nce mett’

Nu ramagliett’

De frisca violett’

In casa dello sposo

Mamma d’ la grà

Vien’ vience a vesità

Dànce tu na man’

Li ricci a sterà

Aniello p’ aniello,

Li ricce a tesà d’ Giuvanneniello.

Vien’ vience a vesità

Vience a vesità

Li ricce a tesà

Comm’ fa’ comm’ ogne de

Lu zito li ricce?

Comm’ fa’ comm’ ogne de

Giuvanne li ricce?

Vien’ vience a vesità

Vience a vesità

Dance tu na man’

Li ricce a tesà.

Mò nce jammo a li tre mercati ‘ncittane

P’ cumprà p’ cumprà d’agniento na garraffa

P’ lustrà p’ fà brillare

Chisti ricce!

P’ fa brillar’ sti ricce biond’!

Mamma d’ la gra’

Vien’vience a vesità

Dànce tu na man’

Li ricce a stirà

Vien’ vience a vesità

Li ricce a stirà.

Sera aiessera,

Stev’ assettato a la casa

Assettat’ lu zit’

Sciuglieva li ricce.

Mò a chi mai sti ricce darrammo?

E mò a chi maie

Sti ricce darraie?

Vacce a dà sti ricce biondille.

Mò a chi maie

Sti ricce darrammo?

A te Ntoniella attoccano

A Ntoniella

Ntonielluccia bella

A te attoccano

A Ntoniettuccia

Vanno sti ricce!

D’ garuofaniello va l’odore cu tìe’

A te attoccano!

Vuie d’oro lucite d’ lu zito

Oi ricce d’oro lucite

Pe’ stu bellu figliul’

E l’arricciava mammélla

L’arricciava

E po’ accussì diceva:

Figlio ca p’ nov’ mis’

Io te purtai

‘Nzino io te purtai

Te purtai

E a n’ata t’ ne vai

Ramusciello mò nce stai

Lemmunciello l’adacquai.

A chi li ricce, a chi stu tesoro?

A chi mai sti ricciole d’oro?

A chi mai

Sti stennarde de lo sole

Esche d’ lu cor’

Fora d’ li ffore?

Viata, viata chesta mamma

Che fece stu figliulo assennato

Fatone

Buonu guaglione

Curazzone

Bellu guappone!

Cumparite ricce biondille

Ntorno a stu janco viso,

Fioruso vaso de rose!

E pe’ te oi Antoniella

Stu fioruso vaso de rose

Lu meglio sciore de lu paravis’

A Rurian’ Rurian’

Chisti ricce fanno tutte ‘mpazzì

Mamma d’ la grà

Vien’ vience a vesità

Dance tu na man’

Li ricce a sterà

Aniello p’ aniello

Li ricce a stirà

D’ Giuvanneniello.

Vien’ vience a vesità

Dance tu na man’

Li ricce a stirà

O Maronna Bruna

Viénce Santa Vergene

Vié a lo ‘ngaudio

A lo ‘ngaudio

Viene cu tutti ll’Apostoli

Vié a lo ‘ngaudio

A lo ‘ngaudio

Vien’ nziem’ai Sant’Angeli

Vié a lo ‘ngaudio

A lo ‘ngaudio

Nos benedica Domine

Pate cum Figlio

Vié a lo ‘ngaudio

A lo ‘ngaudio

A lo ‘ngaudio

Benedicite mate e pate

Che a me ‘ngaudià vaco

Come a combatt’

E le mura vaco a batt’

P’ pigliareme la figliol’

E mò jé Giuvannino signò

E le ccér’ songo ardent’

‘Ncattedrale lu zit’ entra

E basa lu Cristo argent’

Oi Madonna mate re Dio

Cristiani che

Cumpagni che

Fratielli che site venuti a vedé

Benedicite p’ ‘ngaudià lo sposo nuviell’

Vui che viaggiaste ‘ncammino a pié

P’ lu zito ch’è garufaniell’

Lu sposo mò caccia ll’aniell’

Ohi!

Com’ piuma liggera cade ‘ncocchia

Se ‘nginocchia

A lo castello p’ ghì ‘ncocchia

Se ‘nginocchia

Se ‘nginocchia

Giuvanniello a soi pate

Se ‘nginocchia

Giuvanne davante a soi mate

Dice: mò benedite lo vostro figlio

E l’occhio de Dio

Sope quisto ‘ngaudio

Cum Cristo Dio vace avant’

E nui dreto cui Sant’

Benedite noi li vecchi e li giovani

E Santi Cosma e Damian’

Dio benedica le ddoi Famiglie

A tutti nce diano la man’

Ohi!

Dio benedica le ddoi Famiglie

Dio benedica le ddoi Famiglie

Dio benedica lo nostro parroco

Michele arcangelo

Dio benedica nui frati di Cristo

Dio benedica tutti li cristiani

In soi sante mani

Momme Pate

Et Figlio et Spiritu Santo

P’ lo ‘ngaudio

A lo ‘ngaudio

A lo ‘ngaudio

Santo Luca vieni a lo ‘ngaudio

Santo Luca

Santo Luca vieni a lo ‘ngaudio

Santo Luca vience mmiezo

Vience mmiezo

Viene tra li zite nuvielle

Vience mmiezo a sti dui compari

Scinne mmiezo a sti dui sposi

E primmo figlio.

La partenza della sposa

Dice che ce stev’ la luna

Risplendente come lo mi amore

E ce stev’ la Regginella

‘Ncasa de lo gnore tatariello

‘Ncasa de lo gnore

‘Ncasa de la gnora mammella

Oi ta’ damme la benerizio’

E po’ luntano a n’ata maggion’

E comme colava cera vergene

Dalla cannela ‘nnante a li Santi

Jesse steva Regginella

Regginella pronta a ghì

E già benediceno la soi figlia

Essa chiangenno ‘nnante a tata

Ecco jè le quattro parte facimo

Ecco jè le quattro parte facimo:

Pane sale e Maria Vergene

Santu Cosma viene a lo ‘ngaudio

Santu Cosma e Damiano

A lo ‘ngaudio

Ndà la stanza

Ndà la stanza priparata

Ddoi palomme so’ pusate

Santo Cosma a lo ‘ngaudio

Santo Cosma e Damiano

Santo Cosma fance forte

Forte e longa na catena

Na catena

Da mò nfi’ alla vicchiaia

La Maronna, Cosma e Damiano

Mò ce stanno ‘nnante

Cu catena santa

Da mò nfi’ alla vicchiaia

Da mò nfi’ alla vicchiaia

E nfi’ alle criaturell’.

Ndà la stanza

Ndà la stanza priparata

Ddoi palomme so’ pusate

E chi vev’ chi vev’ chi vott’

E chi sona e vatt’

Lu tammurro sona e sbatt’

Santu Cosma viene a lo ‘ngaudio

Mò ce stanno ‘nnante

Cu catena santa

E ‘ngaudio putente

Santu Cosma viene a lo ‘ngaudio

Da mò nfi’ alla vicchiaia

Da mò nfi’ alla vicchiaia

Fino alle criaturell’

E tu Santa Maronna

Tu Maronna Santa

Mamma re Dio

A lo ‘ngaudio

A lo ‘ngaudio

A lo ‘ngaudio

Fallo forte

E cu tutti ll’Apostoli

E co tutti Sant’Angeli

E comme la vite a lo chiupp’

Comme fa la vite a lo chiupp’

Tal’e quali li dui zite

Pozzano aunì de cchiù

Sempe cchiù de cchiù

Uù uù uù uù uù

Core de mamma

Ohi figlio mio de mele

Core de mamma oi nennillo

Ca t’aggio allattato e crisciuto

Ahi torna a me figlio de mèle

No farme aspettare a te cchiune

Torna a me

Tòrnate figlio trisoro

Tòrnate figlio de mèle

Scurdasti ohi figlio ‘nta toppa d’oro

La chiave ‘nta la fascia de seta

Core mio nennillo

Core mio nennillo

Il pranzo di nozze

E fiore co fiore se ‘nzertavano

E fiore co fiore pampaniavano

E voilì voilì voilì

Cuntienti e voilì

E cèvza rossa mora

E voilì

Fràula paisana sana

Oi San Criscì

Voilì e voilì

E fiore co fiore se ‘mparolano

E fiore co fiore s’avvicinano

E tuosto tuost’ arriva Ntonio ‘o ricciulill’

Ha trovato n’aniello d’oro

E preta priziosa

E lo primo fiore jè Giuvanneniello

Lu sicondo fiore è Ntoniella bella.

Muscio muscio vene

Austin’ o tallo

Ca l’ha perzo n’aniello

Austin’ o tallo

Ca l’ha perzo n’aniello d’oro

E preta priziosa

Muscio muscio muscio Austin’

Muscio Austin’

Viene tallo

Viene Austin’ viene Austin’

Ca l’ha perzo n’aniello

Co preta priziosa

E arriva volanno e arriva

E lo fiore co’ fiore se salutano

E lo fiore co’ fiore se salutano

Iù iù iù iù iù iù iù iù

E lo fiore co’ fiore se ‘mparolano

E arrivat’ palomma

E arrivat’

Iu iu iu iu iu iu iu iu

Voilà!

E arrevai l’auciello oi

E arrevai palomma

E arrevai oi

Mò le scelle sbatte

E mò le scelle rotte

Voilà voilì voilà

Trema tutt’ ’o letto

Voilà voilà

Tata le dicette:

Voilì voilà lilà

La zita vi’ ccà

E Dio te la dà

Tiè lino e canapa

Ahi piglia Ntoniella e trapana

Le cammise e llenzola hai da fa’

Llenzola hai da fa’

Ahi piglia ntoniella e trapana

Jennero mio caro

T’arraccumann’ e te dongo

La figlia mia

Tiè lino e la sémmen’

Chesto cumpete a la fém’na

Tie’ lo ggrano e lu cellar’

A te t’attocca guvernar’

Lo grano e lu cellar

Spacca li llén’ li llenzol’

Dance ammore

E falle na scutuliat’

Nobble so’ trasut’

E songo bevut’

E songo bevut’

E a maria no ‘nvito

Vive mammélla

E po’ magna cu nnui

Nu vev’ nu magno cu signure

E nu sento

E si stesse Menecon’?

Ve varrìa magnarrìa e ve sentarrìa

Oi tu auciello cantator’

Viaggiator’

Oi tu auciello cantator’

Viaggiator’

Andò si’ stato

E che hai truvat’?

‘Ndo si stato e ch’hai truvat’?

So’ stato p’ lu spierto mare

Oi lu mare p’mare

Voilì voilì lu mare p’ mare

E mmiezo a lu mare lu mare

Nu janco cigno navigar’

Voilà nu janco cigno navigar’

Oi

Nu janco cigno a lu mare

Oi

Vedisti tu lu janco cigno?

E allora dice che a lu mare

Lu mare nun so’ stat’?

E allora dice che lu cigno

Nun aggio abbistat’?

Uh! Na cigna na cignella sotto so’

Uh! E jessa steva sott’ ’a scella so’

Dui cigni e bbà

Dui cigni janche jà

Che fa p’ mare janche jà.

Uh! Giuvanni e Ntoniuccia jerano uh!

E voilà e voilà dui cigni janche jà.

Giovanni e Ntoniella jerano

E tu, Ntonià,

Che dote hai dat’a iss’?

Stu lazietto

Vi’ quant’oro tengo ’mpietto

Zecchine e perle fino a ‘nterra.

O sciaurat’ lo pat’ d’ Ntoniella

Ha dat’ la figlia

P’n’onz’ ’e muniglia

Jamm’ bell’ ampressa facìt’,

E purtate la zita

Cca se scoccia lu zit’

A’ muniglia n’onza

Te la vinn’ e l’arronze?

Belle ragazze,

Vui maeste d’ verrizze

Sciacquapiatte cu priezze

Male lengue fràcete

Mogliere sbrénnete

D’uommene ‘nzipete

E vui cantatò’

‘Nvitate a sta cummertazio’

Cuminciate!

E lu zito dice: dorm’r’ voglio

Essa le risponne: e io cu te

E lo sposo dice: int’a lu lettuccio

E Ntoniella le fa: nce capimm’?

E Giuvanne dice: la cuperta è fredda

E Ntonia risponne: la scarfammo.

E p’ te Giuva’

Che mò stamo a canta’

D’ lu falcone e d’ lu pavone

P’ Ntoniella P’ Ntoniella

Siéntece oi Giuvanne

Nui p’ te oi Giuvanniello

Jé p’ vui sta canzone

P’ vui zite jè.

E tu che fai sola sol’assettat’?

Oi Tolla auniscete ‘nzieme cu nuie

Lu letto va a scarfa’ a Giuvanni

Quanno vive e te spasse

Lu mmale va arrasso

Ué ca li signure

Ué ca spilan’ ’o ziro

E po’ sient’ dire

Uh ca stu festino

Va propeto na meraviglia

Nove cacciat’’e vino bone assai

Ma la decima cchiù meglio sarrà

Se ne va Ntoniella a n’atu paese,

A n’atu paese,

Bona sciort’ essa aggia

Sia rispettosa e saggia

Rispettosa e bona e gentile

Cu ognuno

Nu surriso all’anziane

E a chill’ ’e vint’anne

Ma na leverenza spetta sul’ a Giuvanne

E p’ la via ‘e massarie

P’ la campagna bene mio

E ‘nta lo ciardine

Li pperat’ asciate delli pieduzze

‘E Ntoniuzza

Jeva e ghieva lu zito lu zito

E sope lo capo

S’è puosto lu cappiello

Vede Giuvanniello,

Ammartenatiello,

La mia cara Ntoniella

Avanz’ ’o pere nu miglia

Porta la mantiglia

La vunnella vermiglia

Tène nere li cciglie

E alla salute d’ gnore

Tata viv’ addò vaie

Tata viv’ addò vaie

Quacche cosa ai zite daie

Alle zite mò daie.

Ué ca li figliule int’ a na casarella

Vanno li spuse

Lu lietto de rose

Li ccuscenelle de raso

Lu vaceliello d’argento

La tuvaglia addore de menta

Lieve russo miette a lu viso.

Forte! Uh è forte!

Nun se po’ vevr’!

Vive, vive e và

S’ha da vevr’ assai

E quaccosa alli zite dài

Alli zite dài

Alli zite dài

Chesta, chesta, chesta femmena

Chesta ciotola va nu ‘rano

Ma quanno quanno sarrà chiena

Ne jarrà dui duie ’rà

Fosse o ver’!

Fosse o ver’!

Va lu sciumm’ ‘nchiena pussente

Jesse duie ‘ra, jesse cinche

Ma nnant’ a la porta s’allamenta

Ohi socra mia mamma ’gnora mia!

Ma basta!

Jammo bello amice

Nun verite ca lu zito s’è stancato?

Nun sarrà cchiù zit’

La figliola trase rint’ a la stanza

Jarrà duie rà

Forse otto

E nziem’ a essa

Vanno a priparà lu liett’

Lietto, lietto mio letticiello

Ncoppa lu lietto li mmatarazz’

Ncopp’ a li mmatarazze li ccuscenell’

Sotto li ccuscenelle le lenzol’

Sotto li cuperte lu giovane ‘agliard’

Sotto bell’ e ‘agliardo Giuvanneniell’

Giovann’ ’e Felippo

Quanno l’auciello pizzeca la fica

Ncoppa a lo lietto

Giuvanniello stregne Ntonietta

E la vasa

La mano piglia e l’accarezz’

La manella ncopp’ a lu ccor’ e bbà

La manella ncopp’ a lu ccor’ e bbà

Core mio moglierella

Ca mò sì d’ ’a mia pazziella

P’ lu lietto desiderat’

Starrammo io e te

E cu ssanetà

Alla faccia ‘e chi porta ‘mmiria!

I meriti del Carpino Folk Festival nella campagna elettorale per le amministrative 2022

In questa tornata elettorale c’è chi lancia invettive e falsifica la realtà, ma c’è anche chi sceglie con cura le parole per farsi capire e per entrare in relazione. Grazie.

Segue quanto riportato nel capitolo Cultura del Programma elettorale della lista Civica “Carpino nel Cuore – Rocco Ruo Sindaco”.


La lista Carpino nel Cuore considera il punto di vista culturale come leva principale per invertire il trend dello spopolamento o quanto meno fare l’impossibile per mantenere l’attuale popolazione come fattore di salvaguardia del nostro territorio. Particolare attenzione sarà destinata sia alle attività che richiedono un basso impegno economico, ma che risultano molto proficue per l’importanza e per l’impatto che hanno sulle persone, sulle relazioni sociali, le pratiche e gli stili di vita sani dei carpinesi, sia ad una grande strategia di valorizzazione del patrimonio culturale legato alla terra, permettendo all’Associazione Culturale Carpino Folk Festival di riprendere presto le sue attività perchè il suo vero, grande e principale merito è, oggi, la rinnovata coscienza che tutte le risorse di Carpino possono essere fattori determinanti di progresso.
Due decenni di festival hanno, infatti, insegnato che si può guardare con occhio favorevole al futuro di Carpino perchè oltre alla presenza di microimprese nel settore del commercio, delle costruzioni e dell’artigianato, fattori di sviluppo locali sono certamente la buona qualità della vita, il paesaggio naturalistico, lo stato di conservazione delle strade e degli edifici antichi, l’identità culturale, la grande tradizione musicale, ma soprattutto, le grandi tradizioni e i rituali legate ai lavori della terra.
L’agricoltura, in particolare, con tutto il suo corredo di cultura “rurale” è sempre stata il perno del sistema economico-sociale e culturale di Carpino per questo, dopo anni di trascuratezza, torneremo a facilitare e incentivare il lavoro agricolo, la coltivazione in generale e delle fave in particolare, la pastorizia di tradizione carpinese, l’allevamento di bovini della razza “podolica” autoctona e degli ovicaprini, la viticoltura, la coltura e la raccolta delle olive che a Carpino, come risaputo, sono di qualità superiore. Punteremo, inoltre, sulle realtà qualificate per la conservazione, il trattamento e la vendita dei prodotti agricoli (frantoi, caseifici, cantine, piccoli esercenti, salumifici, fattorie didattiche e agriturismi) e favoriremo la nascita e lo sviluppo di piccole manifatture e aziende di trasporto di prodotti agroalimentari. Trasformeremo le sagre attuali a vere vie del gusto e dei sapori che sappiano essere un’adeguata vetrina delle nostre produzioni. Ripristineremo la corsa dei cavalli sul vecchio tracciato e, durante le festività, i giochi della tradizione, quindi memorie e nostalgie verranno considerate forze attive per rinnovare il paese in base al suo naturale essere e con gli occhi dei carpinesi, mai pensandolo come qualcos’altro di astratto.
Daremo avvio ad una stagione teatrale adeguata per la nostra Piazza che resterà luogo adatto per molteplici attività: religiose, politiche, di ristorazione, commerciali, di festeggiamenti e di pubblici spettacoli piccoli e grandi. Ma contestualmente, per avere un grande evento (con tanti spettacoli in un’ unica sera) che funga da strumento di marketing territoriale e faro sul nostro saper vivere in armonia ci attiveremo per la costruzione di un Auditorium, luogo sicuramente adatto a poter ospitare il Carpino Folk Festival, il vero ed unico grande evento del Gargano che ha portato Carpino nel mondo e il mondo a Carpino.
Gli obiettivi e gli interessi, stimolati e sostenuti dal Carpino Folk Festival, hanno permesso di costruire una ricca trama di relazioni istituzionali che non si esaurivano con l’evento stesso, ma che, fino a qualche anno fa ed anche in qualche modo negli ultimi, hanno portato benefici al paese in tanti altri settori (politici, economici e sociali). Il Carpino Folk Festival, oltre ad essere la testimonianza della capacità locale di creare capitale sociale e per questo essere emulato in molti altri paesi, ha permesso l’arrivo di ingenti finanziamenti pubblici, da quelli per le strutture di sostegno, a quelli per la riqualificazione urbanistica e persino quelli per le infrastrutture legate alla nuova vocazione turistica del paese, come ad es. le aree parcheggio costruite e in via di realizzazione.
Tuttavia al Carpino Folk Festival, se pure può costituire una precondizione per rinnovare la nostra realtà, non bisogna assegnarli la responsabilità di essere la soluzione ai problemi della nostra comunità. A questi deve pensare la politica ed è per questo che il festival e la politica dovranno collaborare su piani indipendenti e di rispetto reciproco.
Quanto fatto negli anni dagli organizzatori del Carpino Folk Festival dovrà costituire la buona pratica intorno alla quale altre iniziative, altre realtà associative, altre “imprese” dovranno svilupparsi in maniera autonoma di modo che ogni euro speso in questo settore dovrà essere considerato un euro investito per Carpino e non uno spreco a vantaggio del mal fare. È arrivato il momento di dirci che nel nostro paese non possiamo più permetterci di non saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’ostilità del contesto, ha delle capacità, e bisognerà impegnarsi a farlo durare, e dargli spazio per far vedere che ancora a Carpino è possibile avviare e realizzare buone imprese utili anche a far crescere la speranza e la fiducia, a dare coraggio ai nostri giovani.

La polemica sui finanziamenti senza evidenza pubblica sbarca in Consiglio Regionale

L’interrogazione a risposta scritta diretta al presidente Emiliano del consigliere regionale Giandiego Gatta sull’utilizzo di risorse pubbliche in una circostanza che fin dall’inizio è oggetto di polemiche é possibile scaricarla da qui.

Il festival nelle principali stazioni d’Italia

Di seguito, invece, la nota stampa.
“Un evento che, per anni, ha attirato persone da ogni parte d’Italia e artisti di primo piano, cancellato dall’agenda della Regione che, con il Teatro Pubblico Pugliese, ha deciso di sostituirlo con un altro erogando decine di migliaia di euro a titolo di contributo diretto e senza alcuna procedura di evidenza pubblica: succede a Carpino, culla del noto “Carpino Folk Festival”. Il grandissimo evento ha concorso all’identificazione stessa di Carpino ed ha rappresentato un pezzo fondamentale per l’offerta turistico-culturale della Capitanata e per il brand Puglia. Curato da sempre dall’omonima associazione attiva dal lontano 1996, il CFF sembra esser stato “rimpiazzato” da un altro nel silenzio generale e senza che risultino bandi regionali. Ma facciamo un passo indietro. Nel 2019 il CFF è stato costretto a fermarsi perché le presenze continuavano a schizzare alle stelle e c’erano problemi di ordine pubblico (perché erano da poco accaduti i tristi episodi di piazza San Carlo a Torino in occasione di una finale di calcio).
Il Sindaco del Comune di Carpino, dopo aver negato uno spazio più accogliente, provvedeva, comunque, ad organizzare direttamente una manifestazione transitoria, “Carpino In Folk”, in attesa di incontrare gli organizzatori del Carpino Folk Festival per risolvere i problemi legati alla salvaguardia dell’incolumità delle persone. La manifestazione risulta essersi svolta grazie al contributo pubblico di 70 mila euro, concessi con affidamento diretto dal Teatro Pubblico Pugliese, senza che nessuno abbia incontrato gli organizzatori del “Carpino Folk Festival”. Nel 2020, causa Covid, non è stato possibile organizzare alcun evento. Nel 2021, a maggio, in piena emergenza contagi, è stata lanciata la seconda edizione del “Carpino In Folk”, organizzata da una nascente “Associazione di Promozione Sociale Carpino In Folk” che risulta beneficiaria di un contributo pubblico di 65 mila euro affidati senza gara dal Teatro Pubblico Pugliese per un’attività progettata e pianificata per un pubblico di élite composto da sole 200/250 persone. Per arrivare a quest’anno, dove va in scena “l’atto finale”: con un comunicato stampa istituzionale, viene diffusa la notizia di un evento che si terrà a Carpino ad agosto, il “Festival Carpino in Folk”, che nulla ha a che fare con lo storico “Carpino Folk Festival” né con l’omonimo operatore culturale che da sempre lo ha curato e promosso. Tradotto: non soltanto si è deciso, senza alcuna ragione, di cancellare l’evento tradizionale e di mettere da parte l’associazione che lo ha sempre organizzato, ma sono state erogate somme ingenti senza alcuna procedura ad evidenza pubblica. E’ evidente che ci sia qualcosa che non va ed è per questo che ho depositato un’interrogazione diretta al presidente Emiliano: vogliamo vederci chiaro sulle modalità di erogazione dei contributi, ma vogliamo anche capire perché la Capitanata sia stata, ancora una volta, mortificata con la cancellazione di una manifestazione culturale che la rendeva nota in tutto il Paese”.

Limpida e pulita. Se ne va così Mike, l’ultima voce dei Cantori di Carpino

Mike Maccarone

Bermuda la ginocchio, camicia fasciata a mezze maniche e occhiali da sole al petto. Lo immaginiamo cosi nel suo ultimo viaggio, come l’esibizione scelta per ricordarlo. Con le braccia batte il tempo e solleva pugni per alzare il ritmo. E alla fine, ringrazia per gli applausi: “Mi sento giovane”, dice sul palco, circondato da giovani. Quei ragazzi che negli ultimi anni della sua vita hanno condiviso con lui, oltre a un progetto musicale, la vita. I viaggi, le nottate, il palco, la stanchezza e la gioia.
Ora per Mike Maccarone e il tempo dell’ultimo saluto. Perché anche se si sentiva giovane, aveva 97 anni. L’ultimo cantore di Carpino se ne va, battuto da quella bronchite asmatica che per tutta la vita ha segnato il corso delle sue scelte. Nato il 18 luglio del 1925, Michele cantava ancora, dopo una vita passata amantenere, diffondere e conservare lo spirito festoso che lo ha sempre contraddistinto. Il suo motto era stare allegri e fare festa, nonostante la sua non sia sempre stata una vita facile. Per anni pastore, a pascolare e a cantare fino al periodo milanese, quando si traferisce al nord, dove è operaio prima, in una fabbrica di plastica, impiegato dopo, insieme al fratello Antonio, in uno spaccio di generi alimentari nella città del Duomo. E lui portava la Puglia anche li, la sua terra, insieme all’altro storico cantore carpinese, che era proprio suo fratello Antonio. Poi quella brutta polmonite e l’aria del nord, grigia e sporca, che aveva fatto peggiorare la sua salute, fino alla decisione di ritornare in paese. Il ritorno, porta con sé il ritrovato amore per il canto e per le tradizioni popolari. Ormai non cantava da tempo, ma quelle parole memorizzata durante l’attività di pastorizia, mai hanno lasciato mente e cuore. Quella tradizione orale, che rispecchia in pieno la caratteristica dei cantore, in lui trova manifestazione piena. E Mike ha saputo e voluto traferire questo patrimonio ai giovani. Gli stessi che cantano e ballano insieme a lui. Con cui per due anni ha condiviso gran parte della sua vita. Sono i ragazzi di Malicanti. Lui ha trasferito a loro il suo sapere, loro lo hanno portato fuori da Carpino, dal Salento alla Calabria, fino ai palchi di tutta Italia. “All’inizio era restio a salire sul palco, aveva un sentimento di timidezza e imbarazzo. Aveva vergogna, diceva lui. Ma poi la gioia di condividere, di fare festa, e stare insieme è stata più forte”. Il ricordo di Pio Gravina, che con lui ha condiviso questo progetto, è intimo e di gioia, nonostante la perdita. “I canti e suoni della tradizione. Il progetto era questo. Traferire tutto questo sapere per non perderlo con la scomparsa degli ultimi cantori. E Mike è stato protagonista assoluto. Dopo la morte di suo fratello ha vinto anche le resistenze iniziali e si è dedicato a questo progetto, come se sentisse di avere una responsabilità verso questa tradizione. Il suo approccio con il pubblico, poi, era bellissimo. Diretto, semplice e forte. Ela sua è rimasta fino alla fine, fino alla vecchiaia, una delle voci più belle di Carpino”. Una voce che resiste al tempo, limpida, pulita, d’impatto. Come lui. “Era un uomo forte, dal carattere dominante. E spesso, soprattutto nei viaggi, ci sorprendeva per la sua grande resistenza fisica. Sul palco poi era un trascinatore. Si portava dietro numerosi fan che lo seguivano nei vari concerti e lui di questo era davvero molto orgoglioso. Era un vanto per lui. Un uomo allegro, festoso, un trascinatore”. Un trascinatore al punto che nel giorno del suo compleanno, da quando aveva compiuto 85 anni, veniva organizzata una festa-evento. Un catalizzatore, di varie generazioni, che manteneva viva la magia del Carpino Folk Festival. “la sua voglia di far festa, di incontrarsi e stare insieme è stata il motore dietro cui ci siamo mossi per tantissimi eventi e momenti. E grazie al lavoro dell’associazione, il Carpino Folk Festival, il progetto Voci e canti della tradizione di Carpino, è stato possibile non perdere questa magia”.
Una magia che non deve dissolversi anche ora che sono venuti meno i cantori storici. “E’ stata una campagna importante di ricerca – spiega Luciano Castelluccia – che ha portato i ragazzi a incontrare e censire tutti i cantori, non solo quelli più famosi di Carpino e di raccogliere tanto materiale di casa in casa, ascoltando e memorizzando tantissima parte di questo patrimonio”. Anche per lui la figura di Mike lascerà un grande vuoto e tanti ricordi bellissimi. “Eravamo andati alla Notte della Taranta. Stanchissimi.
Si era fatto tardi quella sera. Eravamo andati a letto all’alba. Verso le sette me lo ritrovo davanti, mentre ancora dormivo. Lui brandiva un giornale. Lo aveva piegato e lo usava per svegliarmi. Lo batteva fra i miei piedi, per convincermi ad alzarmi che dovevamo rientrare, perché era la festa di San Rocco e lui voleva tornare a casa in tempo per preparare il ragù e mangiare con tutta la famiglia e poi doveva andare alla Processione. Questi valori. La presenza, la festa del Santo Patrono, la famiglia che mangia insieme. E non c’era stanchezza che poteva fermarlo”. E allora non stancarti Mike, neanche per l’ultimo tuo viaggio. E vai, vola sorridendo e cantando.

TOMMI GUERRIERI su l’Attacco del 12/01/2022

MUSICA POPOLARE LA TRADIZIONE GARGANICA COME UN ELEMENTO IDENTITARIO
Il genius loci con melodia
Mike Maccarone per noi era un informatore. È la definizione di Luciano Castelluccia, storico direttore artistico del Carpino Folk Festival, tra i fondatori dell’omonima associazione che a partire dal 1996 tradusse l’antica tradizione dei Cantori in un vero e proprio brand artisticoculturale. Un evento catalizzatore in grado di dare riconoscibilità a un territorio attraverso la sua musica popolare, quella che cantavano i pastori, gli allevatori, i potatori di ulivi di un entroterra garganico aspro ma non per questo meno affascinante della sua frangia costiera. «Si cantava per sopportare meglio la fatica – spiega Castelluccia –, per alleggerire il lavoro manuale, come faceva anche Mike da giovane, intonando quei canti che si tramandavano di generazione in generazione».
Ed è qui che entrano in scena gli “informatori”, i depositari della memoria autentica che, oralmente, hanno da sempre l’incarico di tramandare il canto, proprio come l’ultimo pezzo di storia della musica popolare del Gargano scomparso lo scorso 10 gennaio. Ultimo ad andarsene e a lasciare, di fatto, un buco storico, tanto da domandarsi cosa ne sarà, adesso e in futuro, dei Cantori di Carpino.
«La tradizione continua – ha risposto in merito Castelluccia – perché c’è un gruppo che ha conservato il nome dei Cantori di Carpino, ad oggi composto da una formazione più giovane e rappresentata da colui che può essere definito l’erede: Nicola Gentile». Tammorra e voce, con i suoi settant’anni è attualmente il più anziano dell’ensemble odierna, forte della sua lunga esperienza al seguito dei tre storici cantori Sacco, Maccarone e Piccininno – a quest’ultimo fu dedicato nel 2016 “Chi sona e canta no nmore maje”, terzo disco prodotto dall’associazione culturale Carpino Folk Festival in cui, tra i protagonisti e interpreti, c’era proprio Gentile.
«Ma è importante sottolineare che la tradizione carpinese si sta conservando perché negli anni il lavoro dell’associazione e degli stessi abitanti di Carpino non si è limitato solo all’evento di massa – spiega ancora Luciano Castelluccia – indirizzandosi anche verso una ricerca culturale, sonora e testuale». Circa vent’anni sul campo, dunque, etnograficamente parlando, con l’obiettivo di fornire alle nuove generazioni un punto di vista storico, per non dire scientifico: interviste, aneddoti, saperi che sono stati acquisiti dalle voci autentiche dei cantori. «Abbiamo un’antropologia importante trasmessa oralmente – continua Castelluccia – e Mike Maccarone faceva parte di quella classe di età che ci permetteva di approfondire e non commettere errori». Un ponte tracciato per quei ventenni che già da qualche anno assaporano il fascino dei canti, menando a memoria testi e giri di tammorra, sentendoseli propri, poiché «li vedono come un momento di aggregazione da tirare fuori durante le festicciole, non senza un certo orgoglio».
Una luce, dunque, per i cantori di domani.

IL RICORDO FU PROTAGONISTA INSIEME AD ANDREA SACCO, ANTONIO PICCININNO E ANTONIO MACCARONE

«Farfone» è muto
Il blues del Sud pure

L’ultimo. L’ultimo di una generazione antica, depositaria della tradizione musicale garganica. L’ultimo dei “vecchi” Cantori di Carpino.
È Mike Maccarone, detto “Fàrfonë”, cantatore spentosi a novantasei anni lo scorso 10 gennaio, a Carpino, dove mai, sennò?
Con lui se ne parte la primavera, si potrebbe dire, rubando al grande De André una carezza espressiva in grado di rendere giustizia a quello che può essere considerato, con paradosso retorico, il quarto cantore dello storico trio carpinese.
Andrea Sacco, Antonio Piccininno e Antonio Maccarone: loro sono i primi, infatti, gli iniziatori, coloro i quali hanno riportato in auge l’antica tarantella garganica entrando, a partire dagli anni ’50, nelle registrazioni di etnomusicologi italiani e stranieri – su tutti l’americano Alan Lomax, colui che “rese” blues la musica tradizionale del sud Italia. A cavallo tra gli anni ’90 e la fine del secolo scorso poi, grazie all’associazione Carpino Folk Festival, l’esplosione: concerti, incisioni, festival, collaborazioni con artisti. Davanti, i succitati tre “frontman” ottuagenari e dietro le quinte, senza mai salire sul palco, Mike, fratello minore del più famoso Antonio Maccarone.
«Non si è mai voluto esibire – racconta Pio Gravina, musicista e autore, con Enrico Noviello, dell ’irrinunciabile libro-cd “Canti e suoni della tradizione di Carpino”–ma era un cantore a tutti gli effetti, proprio come l’intera famiglia Maccarone, dove cantavano tutti, dal padre fino all’ultimo dei fratelli. Negli ultimi anni poi, è venuto fuori».
Una carriera artistica che comincia a ottantacinque anni, trent’anni dopo il suo rientro a Carpino, con un’altra vita da operaio a Milano, lui come suo fratello Antonio, nati pastori.
Dal 2010 anche Mike comincia a salire sul palco, a diffondere la rodianella, la viestesana e la montanara: i tre stili carpinesi dell’ormai istituzionale musica popolare del Gargano. «Negli ultimi anni ha preso parte a tanti concerti –racconta ancora Gravina – compresa la Notte della Taranta, cantando con il gruppo dei Malicanti. Si è esibito in Salento, a Roma, a Milano… “L’avessi fatto prima, saremmo andati in giro per il mondo”: è ciò che ripeteva».

ALESSANDRO GALANO 13 GENNAIO 2022 L’EDICOLA DEL SUD

Come la politica distrugge le migliori operazioni culturali di Piero Paciello

Detti & contraddetti del 03/08/2021 quotidiano L’Attacco

NON C’È STATA NESSUNA DIVERSITÀ DI VEDUTE, L’ASSOCIAZIONE CULTURALE CARPINO FOLK FESTIVAL DOPO DUE ANNI DI AFFERMAZIONI AMBIGUE, SPECULATIVE E CONFUSIONARIE HA PORTATO A CONOSCENZA DEL PROPRIO PUBBLICO:
1) CHE E’ ESTRANEA ALL’ORGANIZZAZIONE DEL SEDICENTE FESTIVAL NATO SU INIZIATIVA DEL SINDACO DEL COMUNE DI CARPINO
2) CHE IL SINDACO HA DETERMINATO LA SOSPENSIONE DEL CARPINO FOLK FESTIVAL CON LA MANCATA CONCESSIONE DI UN AREA SICURA CHE ANDAVA INCONTRO ALLE INDICAZIONE DELLA QUESTURA E CONSENTISSE IL RISPETTO DELLE LEGGI in materia di sicurezza, sanità, inquinamento acustico, sicurezza e igiene sugli ambienti di lavoro, di viabilità, etc.;
3) CHE IL SINDACO, INVECE, DI CHIEDERE FINANZIAMENTI PER LAVORI DI ADEGUAMENTO DELL’AREA DA NOI INDIVIDUATA, HA PREFERITO ANDARE A CHIEDERE PER IL SUO FESTIVAL I FINANZIAMENTI CONSOLIDATI DAL CFF PER TUTTO QUANTO FATTO in tanti anni a Carpino e sul Gargano nell’interesse di tutto il movimento culturale pugliese;
4) CHE L’EVENTO CREATO DAL SINDACO SPECULA SUL LAVORO FATTO IN XXIII ANNI DAL CARPINO FOLK FESTIVAL CON PRATICHE SCORRETTE ED INGANNEVOLI volte a confondere il pubblico e gli artisti;
5) CHE LE RISORSE PER REALIZZARE L’EVENTO DEL SINDACO VENGONO AFFIDATE PER IL SECONDO ANNO SENZA GARA ad un organismo appena nato, dopo il flop della prima edizione e dopo la bocciatura del progetto nel settembre 2020 da parte della Regione Puglia (leggi “ritorno al sud”) e da parte del Ministero della Cultura a giugno 2021 (leggi “urban regeneration” in Borghi in Festival)
6) CHE TALI AFFIDAMENTI DIRETTI CONSENTONO DI PERPETUARE SPECULAZIONI NEI NOSTRI CONFRONTI E FALSANO LA CONCORRENZA FRA GLI OPERATORI DELLO SPETTACOLO PUGLIESE tanto più quando non prevedono quote di cofinanziamento, vincoli e controlli sull’attività e il rispetto degli stessi indicatori che vengono richiesti invece a tutti gli altri.
7) INFINE CHE SI STA OPERANDO LA SOSTITUZIONE DEL CARPINO FOLK FESTIVAL IN OGNI DOCUMENTO DI PROGRAMMAZIONE SCREDITANDO LA NS ASSOCIAZIONE CON INSINUAZIONI SULLA GESTIONE DEL FESTIVAL QUANDO INVECE BISOGNEREBBE CHIARIRE PERCHE’ LA NEO CREATURA SPENDE PIU’ SOLDI PUBBLICI PER FARE MENO DELLA META DELLE ATTIVITA DEL CARPINO FOLK FESTIVAL (vedi https://tinyurl.com/5ebba3r8).
QUELLO CHE STA PER PARTIRE, PER MAX 200 PERSONE, VALE TUTTI I SOLDI PUBBLICI CHE GLI SONO STATI AFFIDATI SENZA GARA?
E NON FINISCE QUA perchè prima o poi, con calma e con l’arrivo dell’aria fresca di settembre, dovremo pur arrivare al vero motivo per cui il festival di ROCCO DRAICCHIO è diventato a Carpino il nemico pubblico numero uno.
IN MEMORIA DI ROCCO DRAICCHIO

Presidente Ass. Culturale
Carpino Folk Festival
Mario Pasquale Di Viesti

MOLTI PIU’ SOLDI E MOLTA MENO ATTIVITA’ DEL CARPINO FOLK FESTIVAL

Il Sindaco ieri sera ha tenuto il suo comizio estivo nella piazza di Carpino per ripercorrere l’attività amministrativa, ma non ha voluto affrontare le questioni che lo tengono sui quotidiani locali negli ultimi giorni, negando ancora responsabilità sulla sospensione del Carpino Folk Festival (anche se adesso vede un problema di congestione in Piazza) e confondendo ancora l’oggetto delle tradizioni di Carpino (la corsa dei cavalli è una tradizione, la modalità di esecuzione della montanara è una tradizione, la produzione delle fave sono una tradizione, il festival, quando raggiunge il suo scopo, è una vetrina, un divulgatore, uno strumento di valorizzazione) non ha proferito parola sulle questioni che gli ha posto il quotidiano L’ATTACCO.
1) COME HA FATTO AD OTTENERE COSI TANTI SOLDI IN COSI POCO TEMPO PER UNA PRIMA EDIZIONE, QUANDO PER GLI ALTRI CI VOGLIONO DECENNI?
2) E’ VERO CHE IL FESTIVAL CHE HA IDEATO NEL REPERIRE LE RISORSE PUBBLICHE HA UN CANALE PREFERENZIALE CHE FA LEVA SUL LAVORO FATTO DAL CARPINO FOLK FESTIVAL?
Per mostrare perchè il Carpino Folk Festival è un’altra cosa e una parte delle ragioni che ci hanno portato a prendere le distanze potete scaricare un lavoro di comparazione fra l’iniziativa del Sindaco 2019 e il Carpino Folk Festival 2018: https://tinyurl.com/5ebba3r8

70.000,00 – TEATRO PUBBLICO PUGLIESE (Determina Comunale n. 84/2019) 8.000,00 – COMUNE DI CARPINO (Determina Comunale n.135/2019) 10.000,00 – PARCO DEL GARGANO (Determina Parco n.337/2019) 15.000,00 di cui PROQUOTA – REGIONE PUGLIA coorganizzazione eventi (vedi Determina Comunale n. 70/2019) 30.000,00 di cui PROQUOTA – REGIONE PUGLIA ASS. AGRO-ALIMENTARE (Determina Regionale n. 47873/180/2019)
Senza entrare in particolarismi, potete vedere nella tabella che il Sindaco ha fornito un’offerta artistica con l’intendo di sostituirsi al Carpino Folk Festival e ha fatto intendere che chiunque avrebbe potuto fare quello che faceva lo staff dell’Associazione Culturale Carpino Folk Festival, sminuendone le capacità e le competenze specifiche. Non parlo del pubblico che non è accorso a vedere gli spettacoli com’era ampiamente prevedibile. Non parlo neanche della vetrina (la promozione territoriale, la valorizzazione culturale, l’attrattività, ect) che non è mai stata accesa se non per chi si stupisce che i Cantori infiammino la piazza di Carpino nella serata a loro dedicata facendo ballare i carpinesi. Non parlo neanche della qualità degli artisti perché sarebbe scorretto nei loro confronti, non c’entrano nulla, è sbagliato tirarli in ballo, sono tutti bravissimi anche se non erano certamente novità assolute per Carpino o per la provincia di Foggia. Mi riferisco semplicemente all’iniziativa artistica facendo finta di non sapere come è andata, che i numeri degli spettatori e i nomi e la qualità degli artisti non hanno la loro importanza, e quindi la valutazione la faccio solo in base alle quantità. La tabella è molto chiara: pur avendo a disposizione sostanzialmente più soldi pubblici del Carpino Folk Festival ed. 2018, pur essendo liberi da lacci e lacciuoli e pur avendo a disposizione il cash (i soldoni) prima dell’avvio delle attività, sono stati messi in programma 9 spettacoli, contro 18 del CFF 2018, 3 giornate anziché 6 di programmazione, 0 performance internazionali anziché 2, e coinvolti 41 artisti anziché 102 del CFF 2018. La tabella, poi, dice anche altro e bisognerebbe parlarne, ad esempio del raggio d’azione, della capacità di coinvolgimento o della capacità di fare memoria, perché sono tutti aspetti da considerare se si vogliono far bene le cose e spendere bene i soldi dei cittadini.
Il Sindaco tace, la tocca piano, ma a questo punto dovrebbe spiegarci perché continua a insinuare una cattiva gestione (e mi sono già impegnato a riferire al Consiglio Comunale se verrò convocato) del Carpino Folk Festival quando la sua creatura spende di più per fare palesemente di meno?
APPENA AVREMO LE CONVENZIONI E LE DETERMINE MOSTREREMO CHE ANCHE QUEST’ANNO LA STORIA SI RIPETE.
In attesa delle spiegazione, voglio dire che, se il Carpino Folk Festival avesse svolto l’edizione 2019, con il programma e con i risultati prodotti dal Sindaco, in Regione Puglia ci avrebbero mandati via e certamente NON ci avrebbero confermato il finanziamento accordato, perché i soldi non stati spesi bene visto che gli indicatori di qualità e quantità stabiliti e controllati puntigliosamente delle commissioni deputate alle verifiche non sono stati raggiunti. Non servono grandi competenze nello spendere il denaro dei cittadini. Ci vuole, invece, una particolare esperienza per spenderlo bene e con efficacia, e non per “interessi” personali.

Presidente Ass. Culturale
Carpino Folk Festival
Mario Pasquale Di Viesti

Quanto urlano le marmotte del Carpino Folk Festival

Dopo le promesse mancate, fatte in piazza in pubblico comizio, mi sono rifiutato di sedermi nuovamente al tavolo delle tre carte ed oggi mezzo stampa ho chiesto al Sindaco (che non si fida evidentemente dei rendicontatori della Regione e di tutti gli altri enti che ci hanno sostenuto) di essere invitato in Consiglio Comunale per mostrate tutta la documentazione del festival alla presenza dei giornalisti che riterranno opportuno intervenire.
Il mio solo scopo è mostrare una volta per tutte che l’Associazione Culturale Carpino Folk Festival ha avuto come unico “interesse” quello di valorizzare le tradizioni musicali di Carpino e del Gargano e con essa promuovere il nostro territorio a chi in questi anni evidentemente deve aver avuto lo sguardo rivolto ad altro visto che non si è accorto che i ragazzi dell’organizzazione negli ultimi 23 anni sono stati nelle piazze, nelle vie, nei teatri, nelle sale stampe ed anche nei treni e nelle stazioni e masserie e quindi continuamente sotto i riflettori per accendere i fari che hanno illuminato le particolarità del nostro Gargano
Il Presidente Ass. Culturale
Carpino Folk Festival
Mario Pasquale Di Viesti

Attacco VENERDI 30 LUGLIO 2021
POLEMICHE&CULTURA
Tommi Guerrieri
Vale circa centocinquanta mila euro il Carpino Folk Festival. E’ intorno a questa cifra e intorno ai fondi messi insieme che si accende l’aspro botta e risposta fra il Sindaco di Carpino Rocco Di Brina e Pasquale Di Viesti, presidente dell’associazione culturale del Festival.
Rompe il silenzio Di Viesti e precisa che si assume tutta la responsabilità del comunicato stampa diffuso a nome dell’associazione. Lo precisa perché i componenti dell’associazione sono stati molestati telefonicamente. Presi in giro per l’inutilità di quelle spiegazioni diffuse sulla presa di distanza di Di Viesti dalla nuova gestione del Festival, il Carpino in Folk.
Finite le telefonate moleste, anche il Sindaco prende la parola e inizia a dire cose. Definisce le dichiarazioni di Di Viesti urla di rabbia e frustrazione, come quelle delle marmotte che si svegliano dal letargo. Ma ora che si sono svegliate, queste marmotte, hanno tante cose da dire. A partire, naturalmente dai soldi. Soldi e politica. Di Brina dice che il Carpino Folk Festival “si e alimentato con soldi pubblici ottenuti non solo attraverso bandi, ma grazie all’impegno di qualcuno che oggi viene preso di mira solo
per essersi preso la responsabilità di non far morire le nostre tradizioni”, “Caro Sindaco -replica Di Viesti-noi rispondiamo a bandi e otteniamo finanziamenti regolari.
Nel 2017 ci siamo presentati e posizionati al quarto posto di una graduatoria regionale. Ora lei sostiene che siamo andati avanti grazie alla sua intercessione. Quindi dice apertamente che questo suo intervento ha modificato le sorti di una graduatoria di merito. E chissà cosa ne pensano in Regione…”Sempre sui soldi, la diatriba si accende ancora. Il Sindaco mette in dubbio la gestione economica del passato. Eppure, Di Viesti sostiene che gli ha lasciato un rendiconto del 2016 che ancora non è stato interamente saldato. “Mancherebbero circa mille euro..”
Prende tempo dicendo che non c’è liquidità. E visto che mette in dubbio la nostra gestione, lo invito a visionare anche ora i rendiconti della gestione precedente, cosi gli dimostriamo come si fa, quando si fanno le cose in modo corretto”
L’associazione sceglie di parlare per dare una spiegazione. “Abbiamo gestito molti soldi pubblici – continua Di Viesti – ed è giusto dare un segnale agli Enti che ci sono stati vicini per anni. Ora però vorrei sapere qualcosa dei soldi dello scorso anno, quando sono arrivati all’organizzazione nata nel 2019 su iniziativa del Sindaco, oltre ai 30 mila euro dall’Assessorato Re-
gionale all’Agricoltura, oltre al soldi del Parco e ai soldi del Comune, anche i 70mila euro dritti dritti dal Teatro Pubblico Pugliese. Come sono stati spesi? E dove sono i rendiconto di quei 70 mila euro?”
Il punto, spiega Di Viesti, è che i bandi regionali assegnano fondi in base ai numerosi aspetti che tengono in considerazione, fra cui anche la capacità di cofinanziarsi. Di trovare quindi altri sponsor e sostenitori. Ci sono poi aspetti come la storicità dell’evento, che entrano in merito. Ecco perché per un’associazione nata nel 2019 diventa più difficile dimostrare affi-
dabilità e un legame con il territorio, se non si sfrutta il lavoro fatto in passato da chi c’è stato prima.
Ma quando si scopre che sono nati due anni fa, perdono. E infatti sono stati bocciati al bando del Mibact. E visto che le marmotte si sono svegliate, “d’ora in avanti nessuno potrà fare finta di non vedere, non sapere e non capire”, conclude Di Viesti.

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