18 maggio 2009 alle ore 20.18
Antonio Basile
Ciao Beppe non avendo ricevuto risposte alla mia email del 12 maggio le riscrivo qui.
Ciao Beppe è giunto il momento di mantenere le promesse.
Sarebbe molto gradita la sua presenza a Carpino per la prossima edizione del Carpino Folk Festival che si terrà dal 02 al 09 agosto.
Stiamo lavorando sul programma e ci piacerebbe presentare il suo libro “La Scordanza”.
Lei ha dei suggerimenti su come si potrebbe impostare la presentazione?
18 maggio 2009 alle ore 21.03
Beppe Lopez
potremmo esserci io e un paio di interlocutori: un letterato e un intellettuale-politico. oppure si potrebbe coinvolgereì il solo Giovanni Moro (il figlio), che io però non so come rintracciare. oppure potrebbe esserci un’idea “a due”: io e Roberto Cotroneo (abbiamo tutt’e due scritto un romanzo sugli anni settanta, ma profondamente e significativamente diversi). oppure io e Carofiglio (io, un “ragazzo” del quartiere popolare barese libertà, e lui un “ragazzo” del quartiere-bene murattiano. se ti va, riparliamone a voce (il mio tel.: 339….)
27/06/09, 11:21
Antonio Basile
Ciao Beppe perchè invece, con l’occasione della presentazione del tuo volume, non rilanciamo dal Carpino Folk Festival l’appello per la nomina a Senatore a vita di Giovanna Marini.
Secondo me con te, Giovanna Marini altro esponente firmatario dell’appello, ad es. Alessandro Portelli potremmo realizzare una bella serata e sostenere la causa che non possiamo non condividere.
27/06/09, 16:21
Beppe Lopez
SAREBBE BELLISSIMO. CI STO SENZ’ALTRO. del resto, tempo fa mi ha telefonato uno del Carpino Folk festival facendo riferimento alla nostra ipotesi e ottenendo da me la disponibilità a venire: aspettavo notizie. MA LA TUA IDEA E’ PROPRIO BELLISSIMA: IO E PORTELLI – E QUANT’ALTRI – A LANCIARE LA CAMPAGNA PER GIOVANNA MARINI SENATRICE A VITA,. anche in risposta al degrado della politica attuale!
Niudd’ se le ricorda, mo, le ultime tre volte che invece si è mettuto a piangere, qualche mese apprima di venirsene qua.
La prima fu a Carpino. Sì a Carpino, sopr’al Gargano.
Quante volte che l’avevano sentuta insieme, lui e Saverin’, la Tarantella di Carpino, la canzone più bella, la melodì più accorata, la musica più addolorata, la voce più struggente, il ritmo più soave di cui rècchia umana abbia mai goduto. No, non quella della Nuova Compagnia di Canto Popolare o quella di Musicanova. No. Quella è robba di recupero. Ma proprio la Tarantella registrata dal vivo, il trenta dicembre del 1966, da Roberto Leydi e Diego Carpitella a Carpino (Foggia, Puglia): canto e chitarra battente di Andrea Sacco, più le due chitarre francesi di Michelantonio Maccarone e Gaetano Basanisi, e le castagnole di Rocco Di Muro. Quel dì Andrea e i compagni suoi avevano semplicemente cantato e sonato, come cantavano e sonavano a ogni serenata, a ogni sponsalìzio, a ogni festa paisana. Solo che quel trenta dicembre del 1966 ci stava un registratore. E solo per questo fatto avvenette il miracolo. Quella che era stata per secoli una canzone poveredda, di poveriddi e per poveriddi diventò un monumento, una delle sette meraviglie del mondo che da sola giustificherebbe l’esistenza dell’Unesco, l’aria più celestiale, la ballata più ammagagnata, la poesì più misteriosa, le strofe più arabescate, il ritornello più strascicato, l’intonazione più affatturata che fantasì umana potesse immaginare e alla quale polmone, cannarile, lengua e bocca umana potessero dare fiato.
Il trentatré giri che la conteneva (I Dischi dell’Albatros, Vedette Record, Italia vol. 1, I balli, gli strumenti, i canti religiosi, antologia a cura di Roberto Leydi) era quello più strutto di tutta la collezione sua, che pure ne vantava di capolavori. Da quando Saverin’ teneva appena tre mesi, sino all’ultima volta che stette con lui, apprima di scìrsene a Bologna – che ne teneva oramà ventitré di anni – se la sono sentuta cento, mille, diecimila volte la Tarantella cantilenata da Andrea.
E che gli va a capitare, quando se ne stava già a solo a solo come una mummia dentro a quella grande casa di campagna? Gli va a capitare che un compagno, Alberto, l’ultimo che si ostinava a tentare di tirarlo fuori da quella depressione, gli domandò se volesse accompagnarlo a Rodi Garganico – lui è originario di quel paisotto sopr’al l’Adriatico – perché teneva da sbrigare certe pratiche al Comune a proposito di un terreno ereditato che stava a vendere. E Niudd’, senza convinzione, si facette trascinare.
Succedette che, per certe complicazioni burocratiche, avevano da rimanere là pure il dì appresso. Allora fu lui a dire ad Alberto che la voleva vedere almeno per una volta Carpino, patria di quei cantatori leggendari, di quella musica senza tempo, di quelle parole che più che foggiane parevano turche, turchine e che comunque non aveva mai capisciuto checcosa volessero significare esattamente (e di cui, intenzionalmente, mai ha cercato il testo scrivuto). Voleva vedere com’era fatto quel mucchio di case e casaredde che una magì aveva da tenerla se là, proprio là, qualche uno inventò quella magica maniera di cantare. Così decidèttero di scirci a mangiare qualcheccosa, quella sera stessa. E là avvenette il prodigio. Parcheggiata la macchina, stavano caminando tra quelle viòttue, quando si sentette una musica da lontano. Evidentemente una festa paisana. Sonavano e cantavano. Mano a mano che si avvicinavano, Niudd’ riconoscette quella musica e pure quella voce. Appena sbucarono dentro allo spiazzo, la scena fu chiara: Andrea Sacco, classe 1911, proprio lui, lui in persona, che chiaramente campava ancora, stava a cantare la Tarantella di Carpino. È stato, per Niudd’, uno dei momenti più emozionanti della vita. Cercò istintivamente Saverin’ con gli occhi, con la capa, col core, con passione, con dolore, con disperazione, e non ci stava.
Piangette ininterrottamente per tutt’e tre le volte, una dopo l’altra, che Andrea Sacco cantò, ricantò e arricantò a furor di popolo quella nenia dolce e disperata.
La seconda volta che piangette, ma certo non come a Carpino, fu dentro a un “centro sociale” romano dove lo aveva trascinato sempre quel compagno suo che non aveva ancora perduto la pascienza. Cantava e sonava un gruppo leccese di pìzzica.
Ci sta da precisare che era stata la “musica popolare”, quella ricchezza e quella bellezza di un mondo antico di poveriddi, mo riconosciuta da tutti come forma classica di comunicazione culturale e sociale, era stata quella musica che a lui aveva regalato o svelato radici che non teneva o non sapeva di tenere sino a quando era rimanuto dentro alla città sua di origine, notoriamente commerciale, materiale e pratica pratica. Quella musica aveva comenzato a sentirsela dentro al sangue e dentro al core con la scoperta, da “romano”, delle cantate dei braccianti di Matteo Salvatore, un analfabeta di Apricena (che poi, guarda la combinazione, è a una sckutazza da Carpino), capace d’inventarsi da solo una tradizione che pareva inesistente o forse più esattamente di adacquare e di fare rifiorire – con la fantasì, con l’allegrì e pure con le ferite sue – temi e melodì asseccate da secoli dentro a quella terra che non conosceva l’acqua. E mo Matteo viene indicato da tutti come un maestro della musica popolare, come un monumento vivente della “musica etnica”, pur essendo rimanuto sempre selvatico, solitario e, nonostante che si atteggi ad artista di varietà e a fìgghio di zòccana, disperato. Apprima Matteo, poi i Cantori di Carpino e poi ancora la pìzzica leccese. Quella musica popolare della terra nostra era diventata, trent’anni dopo, pure la radice delle emozioni e della cultura non solo musicale di Saverin’.
Dentro al “centro sociale” romano, quella sera, il violino non lo sonava Luigi Schifani, l’organetto non era quello di Pasquale Zizzari, il tamburello non lo batteva Salvatora Marzo, la chitarra non la faceva soffrire Giuseppe Ingusci, come dentro alla registrazione fatta a Nardò (Lecce, Puglia) da Diego Carpitella e Roberto Leydi.
L’aria non era nemmanco quella del giugno 1959, quando Ernesto De Martino se ne scendette verso la “terra del rimorso” con uno psichiatra, una psicologa, un musicologo e una sociologa (Giovanni Jervis, Letizia Jervis-Comba, lo stesso Carpitella e Amalia Signorelli) per studiare dal vivo la malatì misteriosa che colpisce le fèmmene muezzicate dalla mitica taranta e la cura rituale di musica, ballo, fazzuetti colorati e scenografì di frasche, fronze e acqua scorrente che sana quelle poveredde con l’aiuto di Santu Paulu meu delle tarante.
Ma il ritmo era quello. L’appassionata voglia d’identificazione di quei ’uagnuni e di quelle ’uagnedde con i cristiani che avevano campato e sofferto dentro alla Grecìa salentina era veramente trascinante. Tutti i ’uagnuni e le ’uagnedde presenti dentro a quel “centro sociale”, praticamente tutti di Roma, si mettèttero a ballare più o meno come ballavano le tarantate, misckando senza saperlo la pìzzica-taranta, la pìzzica-pìzzica e la pìzzica-duello. Non stavano a Galatina, né a Melendugno, né a Torrepaduli, ma quella musica si era infilata veramente dentro alle vene e misckata col sangue di tutti. Pure dentro alle vene di Niudd’, pure col sangue suo, ancora una volta. Così si facette pigliare dalla commozione, gli venette istintivamente il bisogno di condividerla con Saverin’. Ma Saverin’ non ci stava. Il pianto gli salette dalle viscere. Se ne fuscette a nascondersi fuori, all’aperto, apprima che i sigghiutti gli scuotessero penosamente tutto il corpo e gli si bagnassero gli occhi.
La terza e ultima volta che Niudd’ ha piangiuto ….
“La scordanza”, il libro di Beppe Lopez pubblicato da Besa muci 2008, narra del passaggio del nostro Paese – e del suo protagonista – dalla fase pre-moderna alla modernità, dalla fase della ricostruzione a quella della perdita dell’innocenza e dei valori.
Per inseguire i suoi sogni e dare corpo al suo engagement, il “sessantottino” Niudd’ emigra da Bari a Roma per fare il giornalista politico, partecipando a quel clima in cui la liberazione veniva vissuta in prima persona. Tanto per cominciare, nei rapporti professionali e nei rapporti d’amore e di sesso. Le vicende del “giornalista democratico” si intrecciano con quelle dei colleghi “borghesi” e salottieri, del “movimento”, del femminismo, dei “compagni che sbagliano”, del terrorismo, dell’inadeguatezza del sistema politico e delle sue ambiguità. In quel clima, dopo un paio d’anni dalla nascita di sua figlia Saverin’, Niudd’ sfascia, come da copione, il suo matrimonio con Iagatedd’, la ragazza che per amore lo aveva seguito nella capitale… Niudd’ vive lo “spartiacque” della fine degli anni Settanta (emblematizzato dall’assassinio di Moro) come una brutale, indebita, devastante interruzione di un “processo di democratizzazione” nel quale si era identificato per tutta la vita e al quale aveva legato anche le sue ambizioni di avanzamento sociale e di carriera…
Doppiamente sconfitto e ferito – dal crollo del suo mondo di valori e di rapporti, e da una tragedia personale, la più grande che possa capitare a un uomo, che non vuole accettare – Niudd’ torna nel 2000 nella sua città, a sopravvivere proprio nella casa in cui era vissuto da ragazzo, in attesa e con la convinzione di poter rivedere sua figlia…
Il romanzo è diviso nettamente in due parti. Andata e Ritorno.
Nella prima, quella dell’emancipazione, della speranza, delle utopie e infine della “liberazione”, Niudd’ ricostruisce la sua storia famigliare e personale, con radici in un mondo arcaico, insieme semplice e inquieto, che si affaccia alla modernità. In questa prima parte prevale il registro letterario e, con esso, un linguaggio frutto di impasto fra italiano formale e materiale linguistico meridionale (lo stesso affilato idioletto usato da Lopez nel suo romanzo di esordio, Capatosta, caso letterario del 2000).
Nella seconda parte, “Ritorno”, quella della delusione, della sconfitta e del dolore, prevale un registro più “ragionante”, da documento umano e sociale, a tratti anche toccante e insieme ossessivamente ideologico. Qui Niudd’ fa i conti col proprio passato e col proprio insostenibile, inammissibile presente: l’assenza di sua figlia Saverina, dell’unico amore, dell’unico fiato, dell’unica ragione di vita che gli è rimasta su questa terra. Almeno così crede. Tiiene un poco di confusione in capa da qualche tempo. Non esclude nemmeno di soffrire di qualche inganno della memoria. Una scordanza? Un’amnesì? Una rimozione? Non lo sa…
BEPPE LOPEZ, torno al Carpino Folk Festival nel 2018 in Un viaggio slow a bordo dei treni delle Ferrovie del Gargano per una conversazione sul suo libro dedicato a “Matteo Salvatore, l’ultimo cantastorie”, Aliberti Editore.
In memoria
In passato su questo Blog abbiamo già parlato dell’approccio della compenetrazione tra fonti utilizzato da Roberto De Simone e vedemmo come il Maestro faceva uso delle sue ricerche condotte sul campo o di quelle realizzate da altri per confrontare i canti raccolti con quelli documentati con fonti scritte per poi rielaborarli, con il gusto e la grande competenza compositiva che lo contraddistingue, secondo il modello stilistico della tradizione. Ecco, nei giorni scorsi ho trovato un altro esempio che coinvolge Carpino e il Gargano, nell’omaggio che Roberto De Simone fa al compositore Stravinski nel 2021 al Ravenna Festival. Per l’occasione, infatti, rielabora il testo russo di Les Noces nel dialetto garganico, mettendo insieme due mondi apparentemente lontani.
Ma cosa c’entra un balletto composto da Stravinskij per i Ballets Russes di Diaghilev con un antico dialetto garganico? Come possono Les Noces debuttate nel 1923 al parigino Théâtre de la Gaîté-Lyrique diventare Lo ‘Ngaudio? Roberto De Simone riconosce nei quattro quadri in cui stravinskij divide Le Nozze (prima le usanze a casa della sposa, poi quelle a casa dello sposo, il momento della benedizione e quello del banchetto nuziale che si chiude quando gli sposi vengono accompagnati alla stanza nuziale) quel nucleo di originaria verità contadina, quell’essenza rituale, che si ritrova in epoche e culture diverse, e che nelle sue mani diviene strumento di sperimentazione e linguaggio sempre attuale. La partitura e il singolare organico rimangono intatti, mentre il dialetto che sostituisce il russo rimarca l’impeto ritmico della musica. Forse perché se è vero che dei versi tratti da antichi poemi popolari russi lo stesso Stravinskij apprezzava prima di tutto il “suono”, è anche vero che nella purezza del dialetto seicentesco la parola si fa musica.
“Dell’opera – spiega Roberto De Simone – conoscevo le catene fonetiche, le rime, le allitterazioni, le frasi idiomatiche… il lampo mi colse d’improvviso, notando una profonda affinità tra Le Nozze e i canti popolari del Gargano che avevo raccolto a Carpino, a Monte Sant’Angelo, a San Marco in Lamis, a Rodi Garganico e in altri paesi della zona. Ora mi si palesavano le coincidenze fonetiche tra quei canti eseguiti sulle anomale armonie delle chitarre battenti e gli agglomerati pianistici di Igor’, magari riferiti a immaginarie corde di balalaiche. Ne ero sufficientemente convinto: occorreva trasporre il russo in un testo fonetico in lingua garganica, che avrebbe potuto ridare sonorità e significato rituale e religioso all’opera, avvicinandola alla sensibilità del nostro immaginario fonetico, in cui si invocano San Michele, la Vergine Maria, gli Apostoli, parimenti come a Mosca, a Kiev e nelle aree slave.”
Quanto segue è quello che è riportato nel Programma di Sala della serata di Ravenna (12/06/2021)
Da Les Noces a Lo ’Ngaudio
È il 1912 quando Igor’ Stravinskij, ancora impegnato nella stesura del Sacre du Printemps, incomincia ad accarezzare l’idea di utilizzare, per una sua creazione, testi riguardanti i riti nuziali del mondo popolare russo.
Nel suo soggiorno svizzero, iniziato nel 1914, ha già con sé alcune raccolte di canti tradizionali, tra cui un’antologia del folklorista Pyotr Kireevsky; partendo da questi reperti la sua idea è quella di ricreare in scena la solennità di un cerimoniale arcaico e cristallizzato. La fase di elaborazione dura anni e approda alla sua forma definitiva – come balletto – quando, oltrepassato il cosiddetto “periodo russo”, gli orizzonti espressivi del compositore sono ormai mutati e tesi verso il cosmopolitismo culturale della vivace Parigi degli anni Venti.
Nel corso degli anni che trascorrono dalla prima strumentazione (1917) a quella definitiva, andata in scena il 13 giugno del 1923 al Théâtre de la Gaîté di Parigi per i Ballets Russes di Diaghilev (suo committente per l’opera), il progetto si evolve soprattutto da un punto di vista timbrico, mentre le scelte iniziali, sia relative ai testi sia all’impianto melodico-armonico-ritmico, restano in definitiva fedeli all’idea di partenza.
Pensate in prima battuta per soli, coro e orchestra; passate attraverso una fase “meccanicistica” nella quale Stravinskij vorrebbe a tutti i costi inserire – per la disperazione di Diaghilev – delle pianole automatiche in scena; superato il momento in cui il compositore s’innamora delle sonorità del cimbalom ungherese e vuole forzosamente introdurre in organico lo strumento, alla fine Le Nozze approdano a una veste sonora più radicale, sintomatica di quella sorta di prosciugamento formale che accompagna il processo evolutivo dell’estetica di Stravinskij.
Così egli stabilisce di far muovere la sua musica tra due poli opposti, cui dà precisa denominazione: il “soffio” e il “battito”. E se alle voci è destinato le souffle, nulla di più adeguato, per strumentare l’idea di battito, che ricorrere alla percussione.
Percussione in senso letterale (sono undici gli strumenti che rappresentano la categoria) più quattro pianoforti, che esaltano anch’essi l’aspetto ritmico, più che dipanare i suoni in veri, dichiarati archi melodici.
Anche perché la scelta metodica di Stravinskij può dirsi delimitata entro un diatonismo arcaicizzante e barbaro, che esplode nell’essenzialità senza tempo del rito.
E le parole, i testi, originariamente in russo e poi tradotti in francese dall’amico e poeta svizzero Ramuz, vengono rifunzionalizzati in chiave fonetica, in una sorta di frantumazione sillabica che riporta a galla schegge di un mondo all’epoca già quasi perduto e le riallinea nella modernità cinetica e cinematografica tutta nevroticamente parigina.
È proprio sui testi che s’innesta, con sorprendente gioco di analogie metastoriche, il lavoro di Roberto De Simone per Lo ’Ngaudio, versione de Le Nozze stravinskijane in lingua garganica, che nella stagione 2017 della I.U.C. (Istituzione Universitaria dei Concerti, Roma) vede la sua prima esecuzione integrale (dopo un’anticipazione campana risalente al periodo natalizio dell’ormai lontano 2008).
L’intervento del Maestro napoletano è dunque sulla parola: eppure, la sua, mantiene le caratteristiche di un’azione prettamente “musicale”, giacché egli aderisce appieno alle scelte di Stravinskij, che nelle catene fonetiche asseconda sì senso e significato verbali, ma intende mantenere in primo piano una sorta di astrazione uditiva, travalicante la parola stessa.
Il fonema è ovunque la vera operazione culturale.
Su questo sfondo epico e antinarrativo, ecco che si rappresenta Lo ’Ngaudio, come il festino di nozze veniva chiamato in napoletano settecentesco.
La scelta linguistica cade sul dialetto garganico, antiletterario (rilevato sul campo dallo stesso De Simone negli anni Settanta del Novecento), petroso, aspro, tronco e incredibilmente in sintonia con il testo originale russo cui De Simone ha fatto diretto riferimento, senza passare per la più praticata traduzione francese.
Nel rispetto del gioco sillabico, i quattro quadri e le varie scene sono tradotti comunque nel loro significato linguistico letterale. Sorprendenti sono le somiglianze nei culti di Paesi geograficamente tanto distanti: basti citare, tra i tanti elementi analoghi per senso culturale riaffioranti da entrambi i testi, l’uso della lamentazione per l’abbandono dello stato verginale della sposa o l’invocazione ai Santi Cosma e Damiano, i quali anche da noi venivano tradizionalmente invocati per la grazia del parto.
Senza tradire lo spirito originale, l’intervento desimoniano sembra anzi esaltarne l’atemporalità, da cui scaturisce senza forzature la non-necessità di collegare a un luogo prestabilito quanto rappresentato: questi è parte di tutti i luoghi e, ormai, di nessuno.
Anita Pesce
SINOSSI
Primo quadro
La casa della sposa.
Nella casa della sposa, Antonia, le comari sciolgono la treccia della fanciulla annodata con nastri simbolo della verginità. Lei piange, tra timori e speranze, così come vuole la tradizione; le consolatrici cantano in coro e invocano la benedizione della Vergine.
Secondo quadro
La casa dello sposo.
Nella casa dello sposo, Giovanni, i compagni e i genitori adornano il giovane fidanzato; insieme invocano la protezione della Madonna. La preghiera si mescola ai loro canti finché il figlio invoca la benedizione paterna (con un canto basato sulle modificazioni di un tema che nella liturgia bizantina viene di solito cantato nella Messa dei Morti).
Terzo quadro
La partenza della sposa.
Lo sposo viene a prendere la fidanzata. I genitori benedicono la coppia davanti all’icona e le due madri
lamentano ancora la perdita dei figli e li supplicano di tornare alle loro rispettive case.
Quarto quadro
Festa di nozze.
Tra pranzo, danze e bevute, si susseguono incessanti i motti di sapore paesano, i frizzi tra i convitati, le
buffonesche raccomandazioni o allusioni sessuali agli sposi, talvolta anche senza nesso e senso come accade tra avvinazzati. Infine gli sposi sono accompagnati alla stanza nuziale e la festa ha termine.
IL TESTO
In casa della sposa
Scasat’ meja
Sca… scasat’ meja trezzuccia biondella!
Ser’ la mè trezzuccia
Mammella liave mammella liav’!
Ser! Cu anell’ argient’
Mamma allisciava mamma allisciav’
Oh! gioia so’!
Illajò ohmmè!
Pettene pettenà Ntoniella anella
Pettene pettenà ricciolettella Ntonia
Gioia so, rènnena
Ahi trezza arricciala,
Nocca rossa annoccala.
Pettene pettenà Ntoniella anella
Pettene pettenà nenna ’nfunna, stienna
Pettene fitto a lu cardà
Primmi esciva sòcrema
Trista sòcrema
Spiatata sòcrema
Crudela sòcrema
Commènz’ la treccia a sbatt’
Me risbatt’
Sbatt’me risbatt’
Me batt’ e risbatt’
Nce dev’ n’altra bott’
Nce dev’ n’altra bott’
Oh mmé oh mmé,
Gioia so oh mmé
Pettene pettenà Ntoniella anella
Pettene pettenà ricciolettella Ntonia
Gioia so’ rènnena
Ahi trezza arricciala
Nocca rossa annoccala
Ricciolella Ntonia
Trezza meja trezzuccia biondella
Nò chiang’ nò chiangere nennella
Nò chiang’ palommetella,
Nò chiang’ cchiù, oi Ntoniella
No chiangere palommuzza Antoniuzza
Si tatucc’ lasce e màmmeta
Nu rescegnuolo all’uort’
Llà t’accoglie tatuccio a brazz’aperte
La gnora co lo gnor’
Mammella a brazz’aperte
Gnora mamma
Mamma gnora
Faccia argient’
Giuvannenie’ pe te lu rescegnuolo all’uort’
Vola canta ‘ncimma a la casat’
Tutta apparat’
Frischia la matenat’
notte fa la serenat’
P’ tte, sì, p’tte oi ntoniella
P’ tte oi faccia d’oro
Canta e te recreja
E pazzeja
Si ‘o suonn’ s’ntalleja
P’ la Messa te r’sveja
Ndai! Ndai!
Sient’ li sunatur’ paes’paes’
Ndai ! Ndai!
Ca puozz’ aunnà Ntoniella
Ca tu puozz’ aunnar’ ndai!
Ca puozz’ aunna’ comm’ ’o mar’
Sott’ ll’ èv’ra sott’ steva
Sott’ ll’ èv’ra sott’ steva
Lu scium’ nce curreva
E lu sciummo jev’
Sott’ ll èv’ra sott’ steva
Sott’ ll èv’ra sott’ steva
lu tammurro vatt’
E vott’ na bott’
Tozza cchiù sott’
Vir’ portn’ Ntoniuccia
D’ fiore ncoronata
P’ ghi a lu spusariz’
Capill’ pe’ capill’ ohi bionde
Fance stretta la pett’natura
Proprio miez’ d’ la cap’
E all’urdemo rossa la nocca
Oi bella Maronna dance tu na man’
Scinn’ a sta cas’ vien’vien’
Dànce tu na man’ streccia tu la trecc’
Spettna tu a Mtoniella anella
Ricciolettella biondella
Pettene pettenà Ntoniella anella
Pettene pettenà ricciolettella Ntonia
Gioia so’ pettena Ntoniella anella
Pettene pettenà ricciolettella Ntonia
Ohmmé rènnena Ntoniuzza a pettenà
Nocca rossa annòccala
Pettene pettenà Ntoniettella
Pettene pettenà biondolettella Ntonia
Pettene pettenà jonna nfonna stienne
Pettene stritto a lu cardà
Priesto lesta piglia lu laccett’
E la nocca rossa va nce mett’
Nu ramagliett’
De frisca violett’
In casa dello sposo
Mamma d’ la grà
Vien’ vience a vesità
Dànce tu na man’
Li ricci a sterà
Aniello p’ aniello,
Li ricce a tesà d’ Giuvanneniello.
Vien’ vience a vesità
Vience a vesità
Li ricce a tesà
Comm’ fa’ comm’ ogne de
Lu zito li ricce?
Comm’ fa’ comm’ ogne de
Giuvanne li ricce?
Vien’ vience a vesità
Vience a vesità
Dance tu na man’
Li ricce a tesà.
Mò nce jammo a li tre mercati ‘ncittane
P’ cumprà p’ cumprà d’agniento na garraffa
P’ lustrà p’ fà brillare
Chisti ricce!
P’ fa brillar’ sti ricce biond’!
Mamma d’ la gra’
Vien’vience a vesità
Dànce tu na man’
Li ricce a stirà
Vien’ vience a vesità
Li ricce a stirà.
Sera aiessera,
Stev’ assettato a la casa
Assettat’ lu zit’
Sciuglieva li ricce.
Mò a chi mai sti ricce darrammo?
E mò a chi maie
Sti ricce darraie?
Vacce a dà sti ricce biondille.
Mò a chi maie
Sti ricce darrammo?
A te Ntoniella attoccano
A Ntoniella
Ntonielluccia bella
A te attoccano
A Ntoniettuccia
Vanno sti ricce!
D’ garuofaniello va l’odore cu tìe’
A te attoccano!
Vuie d’oro lucite d’ lu zito
Oi ricce d’oro lucite
Pe’ stu bellu figliul’
E l’arricciava mammélla
L’arricciava
E po’ accussì diceva:
Figlio ca p’ nov’ mis’
Io te purtai
‘Nzino io te purtai
Te purtai
E a n’ata t’ ne vai
Ramusciello mò nce stai
Lemmunciello l’adacquai.
A chi li ricce, a chi stu tesoro?
A chi mai sti ricciole d’oro?
A chi mai
Sti stennarde de lo sole
Esche d’ lu cor’
Fora d’ li ffore?
Viata, viata chesta mamma
Che fece stu figliulo assennato
Fatone
Buonu guaglione
Curazzone
Bellu guappone!
Cumparite ricce biondille
Ntorno a stu janco viso,
Fioruso vaso de rose!
E pe’ te oi Antoniella
Stu fioruso vaso de rose
Lu meglio sciore de lu paravis’
A Rurian’ Rurian’
Chisti ricce fanno tutte ‘mpazzì
Mamma d’ la grà
Vien’ vience a vesità
Dance tu na man’
Li ricce a sterà
Aniello p’ aniello
Li ricce a stirà
D’ Giuvanneniello.
Vien’ vience a vesità
Dance tu na man’
Li ricce a stirà
O Maronna Bruna
Viénce Santa Vergene
Vié a lo ‘ngaudio
A lo ‘ngaudio
Viene cu tutti ll’Apostoli
Vié a lo ‘ngaudio
A lo ‘ngaudio
Vien’ nziem’ai Sant’Angeli
Vié a lo ‘ngaudio
A lo ‘ngaudio
Nos benedica Domine
Pate cum Figlio
Vié a lo ‘ngaudio
A lo ‘ngaudio
A lo ‘ngaudio
Benedicite mate e pate
Che a me ‘ngaudià vaco
Come a combatt’
E le mura vaco a batt’
P’ pigliareme la figliol’
E mò jé Giuvannino signò
E le ccér’ songo ardent’
‘Ncattedrale lu zit’ entra
E basa lu Cristo argent’
Oi Madonna mate re Dio
Cristiani che
Cumpagni che
Fratielli che site venuti a vedé
Benedicite p’ ‘ngaudià lo sposo nuviell’
Vui che viaggiaste ‘ncammino a pié
P’ lu zito ch’è garufaniell’
Lu sposo mò caccia ll’aniell’
Ohi!
Com’ piuma liggera cade ‘ncocchia
Se ‘nginocchia
A lo castello p’ ghì ‘ncocchia
Se ‘nginocchia
Se ‘nginocchia
Giuvanniello a soi pate
Se ‘nginocchia
Giuvanne davante a soi mate
Dice: mò benedite lo vostro figlio
E l’occhio de Dio
Sope quisto ‘ngaudio
Cum Cristo Dio vace avant’
E nui dreto cui Sant’
Benedite noi li vecchi e li giovani
E Santi Cosma e Damian’
Dio benedica le ddoi Famiglie
A tutti nce diano la man’
Ohi!
Dio benedica le ddoi Famiglie
Dio benedica le ddoi Famiglie
Dio benedica lo nostro parroco
Michele arcangelo
Dio benedica nui frati di Cristo
Dio benedica tutti li cristiani
In soi sante mani
Momme Pate
Et Figlio et Spiritu Santo
P’ lo ‘ngaudio
A lo ‘ngaudio
A lo ‘ngaudio
Santo Luca vieni a lo ‘ngaudio
Santo Luca
Santo Luca vieni a lo ‘ngaudio
Santo Luca vience mmiezo
Vience mmiezo
Viene tra li zite nuvielle
Vience mmiezo a sti dui compari
Scinne mmiezo a sti dui sposi
E primmo figlio.
La partenza della sposa
Dice che ce stev’ la luna
Risplendente come lo mi amore
E ce stev’ la Regginella
‘Ncasa de lo gnore tatariello
‘Ncasa de lo gnore
‘Ncasa de la gnora mammella
Oi ta’ damme la benerizio’
E po’ luntano a n’ata maggion’
E comme colava cera vergene
Dalla cannela ‘nnante a li Santi
Jesse steva Regginella
Regginella pronta a ghì
E già benediceno la soi figlia
Essa chiangenno ‘nnante a tata
Ecco jè le quattro parte facimo
Ecco jè le quattro parte facimo:
Pane sale e Maria Vergene
Santu Cosma viene a lo ‘ngaudio
Santu Cosma e Damiano
A lo ‘ngaudio
Ndà la stanza
Ndà la stanza priparata
Ddoi palomme so’ pusate
Santo Cosma a lo ‘ngaudio
Santo Cosma e Damiano
Santo Cosma fance forte
Forte e longa na catena
Na catena
Da mò nfi’ alla vicchiaia
La Maronna, Cosma e Damiano
Mò ce stanno ‘nnante
Cu catena santa
Da mò nfi’ alla vicchiaia
Da mò nfi’ alla vicchiaia
E nfi’ alle criaturell’.
Ndà la stanza
Ndà la stanza priparata
Ddoi palomme so’ pusate
E chi vev’ chi vev’ chi vott’
E chi sona e vatt’
Lu tammurro sona e sbatt’
Santu Cosma viene a lo ‘ngaudio
Mò ce stanno ‘nnante
Cu catena santa
E ‘ngaudio putente
Santu Cosma viene a lo ‘ngaudio
Da mò nfi’ alla vicchiaia
Da mò nfi’ alla vicchiaia
Fino alle criaturell’
E tu Santa Maronna
Tu Maronna Santa
Mamma re Dio
A lo ‘ngaudio
A lo ‘ngaudio
A lo ‘ngaudio
Fallo forte
E cu tutti ll’Apostoli
E co tutti Sant’Angeli
E comme la vite a lo chiupp’
Comme fa la vite a lo chiupp’
Tal’e quali li dui zite
Pozzano aunì de cchiù
Sempe cchiù de cchiù
Uù uù uù uù uù
Core de mamma
Ohi figlio mio de mele
Core de mamma oi nennillo
Ca t’aggio allattato e crisciuto
Ahi torna a me figlio de mèle
No farme aspettare a te cchiune
Torna a me
Tòrnate figlio trisoro
Tòrnate figlio de mèle
Scurdasti ohi figlio ‘nta toppa d’oro
La chiave ‘nta la fascia de seta
Core mio nennillo
Core mio nennillo
Il pranzo di nozze
E fiore co fiore se ‘nzertavano
E fiore co fiore pampaniavano
E voilì voilì voilì
Cuntienti e voilì
E cèvza rossa mora
E voilì
Fràula paisana sana
Oi San Criscì
Voilì e voilì
E fiore co fiore se ‘mparolano
E fiore co fiore s’avvicinano
E tuosto tuost’ arriva Ntonio ‘o ricciulill’
Ha trovato n’aniello d’oro
E preta priziosa
E lo primo fiore jè Giuvanneniello
Lu sicondo fiore è Ntoniella bella.
Muscio muscio vene
Austin’ o tallo
Ca l’ha perzo n’aniello
Austin’ o tallo
Ca l’ha perzo n’aniello d’oro
E preta priziosa
Muscio muscio muscio Austin’
Muscio Austin’
Viene tallo
Viene Austin’ viene Austin’
Ca l’ha perzo n’aniello
Co preta priziosa
E arriva volanno e arriva
E lo fiore co’ fiore se salutano
E lo fiore co’ fiore se salutano
Iù iù iù iù iù iù iù iù
E lo fiore co’ fiore se ‘mparolano
E arrivat’ palomma
E arrivat’
Iu iu iu iu iu iu iu iu
Voilà!
E arrevai l’auciello oi
E arrevai palomma
E arrevai oi
Mò le scelle sbatte
E mò le scelle rotte
Voilà voilì voilà
Trema tutt’ ’o letto
Voilà voilà
Tata le dicette:
Voilì voilà lilà
La zita vi’ ccà
E Dio te la dà
Tiè lino e canapa
Ahi piglia Ntoniella e trapana
Le cammise e llenzola hai da fa’
Llenzola hai da fa’
Ahi piglia ntoniella e trapana
Jennero mio caro
T’arraccumann’ e te dongo
La figlia mia
Tiè lino e la sémmen’
Chesto cumpete a la fém’na
Tie’ lo ggrano e lu cellar’
A te t’attocca guvernar’
Lo grano e lu cellar
Spacca li llén’ li llenzol’
Dance ammore
E falle na scutuliat’
Nobble so’ trasut’
E songo bevut’
E songo bevut’
E a maria no ‘nvito
Vive mammélla
E po’ magna cu nnui
Nu vev’ nu magno cu signure
E nu sento
E si stesse Menecon’?
Ve varrìa magnarrìa e ve sentarrìa
Oi tu auciello cantator’
Viaggiator’
Oi tu auciello cantator’
Viaggiator’
Andò si’ stato
E che hai truvat’?
‘Ndo si stato e ch’hai truvat’?
So’ stato p’ lu spierto mare
Oi lu mare p’mare
Voilì voilì lu mare p’ mare
E mmiezo a lu mare lu mare
Nu janco cigno navigar’
Voilà nu janco cigno navigar’
Oi
Nu janco cigno a lu mare
Oi
Vedisti tu lu janco cigno?
E allora dice che a lu mare
Lu mare nun so’ stat’?
E allora dice che lu cigno
Nun aggio abbistat’?
Uh! Na cigna na cignella sotto so’
Uh! E jessa steva sott’ ’a scella so’
Dui cigni e bbà
Dui cigni janche jà
Che fa p’ mare janche jà.
Uh! Giuvanni e Ntoniuccia jerano uh!
E voilà e voilà dui cigni janche jà.
Giovanni e Ntoniella jerano
E tu, Ntonià,
Che dote hai dat’a iss’?
Stu lazietto
Vi’ quant’oro tengo ’mpietto
Zecchine e perle fino a ‘nterra.
O sciaurat’ lo pat’ d’ Ntoniella
Ha dat’ la figlia
P’n’onz’ ’e muniglia
Jamm’ bell’ ampressa facìt’,
E purtate la zita
Cca se scoccia lu zit’
A’ muniglia n’onza
Te la vinn’ e l’arronze?
Belle ragazze,
Vui maeste d’ verrizze
Sciacquapiatte cu priezze
Male lengue fràcete
Mogliere sbrénnete
D’uommene ‘nzipete
E vui cantatò’
‘Nvitate a sta cummertazio’
Cuminciate!
E lu zito dice: dorm’r’ voglio
Essa le risponne: e io cu te
E lo sposo dice: int’a lu lettuccio
E Ntoniella le fa: nce capimm’?
E Giuvanne dice: la cuperta è fredda
E Ntonia risponne: la scarfammo.
E p’ te Giuva’
Che mò stamo a canta’
D’ lu falcone e d’ lu pavone
P’ Ntoniella P’ Ntoniella
Siéntece oi Giuvanne
Nui p’ te oi Giuvanniello
Jé p’ vui sta canzone
P’ vui zite jè.
E tu che fai sola sol’assettat’?
Oi Tolla auniscete ‘nzieme cu nuie
Lu letto va a scarfa’ a Giuvanni
Quanno vive e te spasse
Lu mmale va arrasso
Ué ca li signure
Ué ca spilan’ ’o ziro
E po’ sient’ dire
Uh ca stu festino
Va propeto na meraviglia
Nove cacciat’’e vino bone assai
Ma la decima cchiù meglio sarrà
Se ne va Ntoniella a n’atu paese,
A n’atu paese,
Bona sciort’ essa aggia
Sia rispettosa e saggia
Rispettosa e bona e gentile
Cu ognuno
Nu surriso all’anziane
E a chill’ ’e vint’anne
Ma na leverenza spetta sul’ a Giuvanne
E p’ la via ‘e massarie
P’ la campagna bene mio
E ‘nta lo ciardine
Li pperat’ asciate delli pieduzze
‘E Ntoniuzza
Jeva e ghieva lu zito lu zito
E sope lo capo
S’è puosto lu cappiello
Vede Giuvanniello,
Ammartenatiello,
La mia cara Ntoniella
Avanz’ ’o pere nu miglia
Porta la mantiglia
La vunnella vermiglia
Tène nere li cciglie
E alla salute d’ gnore
Tata viv’ addò vaie
Tata viv’ addò vaie
Quacche cosa ai zite daie
Alle zite mò daie.
Ué ca li figliule int’ a na casarella
Vanno li spuse
Lu lietto de rose
Li ccuscenelle de raso
Lu vaceliello d’argento
La tuvaglia addore de menta
Lieve russo miette a lu viso.
Forte! Uh è forte!
Nun se po’ vevr’!
Vive, vive e và
S’ha da vevr’ assai
E quaccosa alli zite dài
Alli zite dài
Alli zite dài
Chesta, chesta, chesta femmena
Chesta ciotola va nu ‘rano
Ma quanno quanno sarrà chiena
Ne jarrà dui duie ’rà
Fosse o ver’!
Fosse o ver’!
Va lu sciumm’ ‘nchiena pussente
Jesse duie ‘ra, jesse cinche
Ma nnant’ a la porta s’allamenta
Ohi socra mia mamma ’gnora mia!
Ma basta!
Jammo bello amice
Nun verite ca lu zito s’è stancato?
Nun sarrà cchiù zit’
La figliola trase rint’ a la stanza
Jarrà duie rà
Forse otto
E nziem’ a essa
Vanno a priparà lu liett’
Lietto, lietto mio letticiello
Ncoppa lu lietto li mmatarazz’
Ncopp’ a li mmatarazze li ccuscenell’
Sotto li ccuscenelle le lenzol’
Sotto li cuperte lu giovane ‘agliard’
Sotto bell’ e ‘agliardo Giuvanneniell’
Giovann’ ’e Felippo
Quanno l’auciello pizzeca la fica
Ncoppa a lo lietto
Giuvanniello stregne Ntonietta
E la vasa
La mano piglia e l’accarezz’
La manella ncopp’ a lu ccor’ e bbà
La manella ncopp’ a lu ccor’ e bbà
Core mio moglierella
Ca mò sì d’ ’a mia pazziella
P’ lu lietto desiderat’
Starrammo io e te
E cu ssanetà
Alla faccia ‘e chi porta ‘mmiria!
In questa tornata elettorale c’è chi lancia invettive e falsifica la realtà, ma c’è anche chi sceglie con cura le parole per farsi capire e per entrare in relazione. Grazie.
Segue quanto riportato nel capitolo Cultura del Programma elettorale della lista Civica “Carpino nel Cuore – Rocco Ruo Sindaco”.
La lista Carpino nel Cuore considera il punto di vista culturale come leva principale per invertire il trend dello spopolamento o quanto meno fare l’impossibile per mantenere l’attuale popolazione come fattore di salvaguardia del nostro territorio. Particolare attenzione sarà destinata sia alle attività che richiedono un basso impegno economico, ma che risultano molto proficue per l’importanza e per l’impatto che hanno sulle persone, sulle relazioni sociali, le pratiche e gli stili di vita sani dei carpinesi, sia ad una grande strategia di valorizzazione del patrimonio culturale legato alla terra, permettendo all’Associazione Culturale Carpino Folk Festival di riprendere presto le sue attività perchè il suo vero, grande e principale merito è, oggi, la rinnovata coscienza che tutte le risorse di Carpino possono essere fattori determinanti di progresso.
Due decenni di festival hanno, infatti, insegnato che si può guardare con occhio favorevole al futuro di Carpino perchè oltre alla presenza di microimprese nel settore del commercio, delle costruzioni e dell’artigianato, fattori di sviluppo locali sono certamente la buona qualità della vita, il paesaggio naturalistico, lo stato di conservazione delle strade e degli edifici antichi, l’identità culturale, la grande tradizione musicale, ma soprattutto, le grandi tradizioni e i rituali legate ai lavori della terra.
L’agricoltura, in particolare, con tutto il suo corredo di cultura “rurale” è sempre stata il perno del sistema economico-sociale e culturale di Carpino per questo, dopo anni di trascuratezza, torneremo a facilitare e incentivare il lavoro agricolo, la coltivazione in generale e delle fave in particolare, la pastorizia di tradizione carpinese, l’allevamento di bovini della razza “podolica” autoctona e degli ovicaprini, la viticoltura, la coltura e la raccolta delle olive che a Carpino, come risaputo, sono di qualità superiore. Punteremo, inoltre, sulle realtà qualificate per la conservazione, il trattamento e la vendita dei prodotti agricoli (frantoi, caseifici, cantine, piccoli esercenti, salumifici, fattorie didattiche e agriturismi) e favoriremo la nascita e lo sviluppo di piccole manifatture e aziende di trasporto di prodotti agroalimentari. Trasformeremo le sagre attuali a vere vie del gusto e dei sapori che sappiano essere un’adeguata vetrina delle nostre produzioni. Ripristineremo la corsa dei cavalli sul vecchio tracciato e, durante le festività, i giochi della tradizione, quindi memorie e nostalgie verranno considerate forze attive per rinnovare il paese in base al suo naturale essere e con gli occhi dei carpinesi, mai pensandolo come qualcos’altro di astratto.
Daremo avvio ad una stagione teatrale adeguata per la nostra Piazza che resterà luogo adatto per molteplici attività: religiose, politiche, di ristorazione, commerciali, di festeggiamenti e di pubblici spettacoli piccoli e grandi. Ma contestualmente, per avere un grande evento (con tanti spettacoli in un’ unica sera) che funga da strumento di marketing territoriale e faro sul nostro saper vivere in armonia ci attiveremo per la costruzione di un Auditorium, luogo sicuramente adatto a poter ospitare il Carpino Folk Festival, il vero ed unico grande evento del Gargano che ha portato Carpino nel mondo e il mondo a Carpino.
Gli obiettivi e gli interessi, stimolati e sostenuti dal Carpino Folk Festival, hanno permesso di costruire una ricca trama di relazioni istituzionali che non si esaurivano con l’evento stesso, ma che, fino a qualche anno fa ed anche in qualche modo negli ultimi, hanno portato benefici al paese in tanti altri settori (politici, economici e sociali). Il Carpino Folk Festival, oltre ad essere la testimonianza della capacità locale di creare capitale sociale e per questo essere emulato in molti altri paesi, ha permesso l’arrivo di ingenti finanziamenti pubblici, da quelli per le strutture di sostegno, a quelli per la riqualificazione urbanistica e persino quelli per le infrastrutture legate alla nuova vocazione turistica del paese, come ad es. le aree parcheggio costruite e in via di realizzazione.
Tuttavia al Carpino Folk Festival, se pure può costituire una precondizione per rinnovare la nostra realtà, non bisogna assegnarli la responsabilità di essere la soluzione ai problemi della nostra comunità. A questi deve pensare la politica ed è per questo che il festival e la politica dovranno collaborare su piani indipendenti e di rispetto reciproco.
Quanto fatto negli anni dagli organizzatori del Carpino Folk Festival dovrà costituire la buona pratica intorno alla quale altre iniziative, altre realtà associative, altre “imprese” dovranno svilupparsi in maniera autonoma di modo che ogni euro speso in questo settore dovrà essere considerato un euro investito per Carpino e non uno spreco a vantaggio del mal fare. È arrivato il momento di dirci che nel nostro paese non possiamo più permetterci di non saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’ostilità del contesto, ha delle capacità, e bisognerà impegnarsi a farlo durare, e dargli spazio per far vedere che ancora a Carpino è possibile avviare e realizzare buone imprese utili anche a far crescere la speranza e la fiducia, a dare coraggio ai nostri giovani.
Di seguito, invece, la nota stampa.
“Un evento che, per anni, ha attirato persone da ogni parte d’Italia e artisti di primo piano, cancellato dall’agenda della Regione che, con il Teatro Pubblico Pugliese, ha deciso di sostituirlo con un altro erogando decine di migliaia di euro a titolo di contributo diretto e senza alcuna procedura di evidenza pubblica: succede a Carpino, culla del noto “Carpino Folk Festival”. Il grandissimo evento ha concorso all’identificazione stessa di Carpino ed ha rappresentato un pezzo fondamentale per l’offerta turistico-culturale della Capitanata e per il brand Puglia. Curato da sempre dall’omonima associazione attiva dal lontano 1996, il CFF sembra esser stato “rimpiazzato” da un altro nel silenzio generale e senza che risultino bandi regionali. Ma facciamo un passo indietro. Nel 2019 il CFF è stato costretto a fermarsi perché le presenze continuavano a schizzare alle stelle e c’erano problemi di ordine pubblico (perché erano da poco accaduti i tristi episodi di piazza San Carlo a Torino in occasione di una finale di calcio).
Il Sindaco del Comune di Carpino, dopo aver negato uno spazio più accogliente, provvedeva, comunque, ad organizzare direttamente una manifestazione transitoria, “Carpino In Folk”, in attesa di incontrare gli organizzatori del Carpino Folk Festival per risolvere i problemi legati alla salvaguardia dell’incolumità delle persone. La manifestazione risulta essersi svolta grazie al contributo pubblico di 70 mila euro, concessi con affidamento diretto dal Teatro Pubblico Pugliese, senza che nessuno abbia incontrato gli organizzatori del “Carpino Folk Festival”. Nel 2020, causa Covid, non è stato possibile organizzare alcun evento. Nel 2021, a maggio, in piena emergenza contagi, è stata lanciata la seconda edizione del “Carpino In Folk”, organizzata da una nascente “Associazione di Promozione Sociale Carpino In Folk” che risulta beneficiaria di un contributo pubblico di 65 mila euro affidati senza gara dal Teatro Pubblico Pugliese per un’attività progettata e pianificata per un pubblico di élite composto da sole 200/250 persone. Per arrivare a quest’anno, dove va in scena “l’atto finale”: con un comunicato stampa istituzionale, viene diffusa la notizia di un evento che si terrà a Carpino ad agosto, il “Festival Carpino in Folk”, che nulla ha a che fare con lo storico “Carpino Folk Festival” né con l’omonimo operatore culturale che da sempre lo ha curato e promosso. Tradotto: non soltanto si è deciso, senza alcuna ragione, di cancellare l’evento tradizionale e di mettere da parte l’associazione che lo ha sempre organizzato, ma sono state erogate somme ingenti senza alcuna procedura ad evidenza pubblica. E’ evidente che ci sia qualcosa che non va ed è per questo che ho depositato un’interrogazione diretta al presidente Emiliano: vogliamo vederci chiaro sulle modalità di erogazione dei contributi, ma vogliamo anche capire perché la Capitanata sia stata, ancora una volta, mortificata con la cancellazione di una manifestazione culturale che la rendeva nota in tutto il Paese”.
Bermuda la ginocchio, camicia fasciata a mezze maniche e occhiali da sole al petto. Lo immaginiamo cosi nel suo ultimo viaggio, come l’esibizione scelta per ricordarlo. Con le braccia batte il tempo e solleva pugni per alzare il ritmo. E alla fine, ringrazia per gli applausi: “Mi sento giovane”, dice sul palco, circondato da giovani. Quei ragazzi che negli ultimi anni della sua vita hanno condiviso con lui, oltre a un progetto musicale, la vita. I viaggi, le nottate, il palco, la stanchezza e la gioia.
Ora per Mike Maccarone e il tempo dell’ultimo saluto. Perché anche se si sentiva giovane, aveva 97 anni. L’ultimo cantore di Carpino se ne va, battuto da quella bronchite asmatica che per tutta la vita ha segnato il corso delle sue scelte. Nato il 18 luglio del 1925, Michele cantava ancora, dopo una vita passata amantenere, diffondere e conservare lo spirito festoso che lo ha sempre contraddistinto. Il suo motto era stare allegri e fare festa, nonostante la sua non sia sempre stata una vita facile. Per anni pastore, a pascolare e a cantare fino al periodo milanese, quando si traferisce al nord, dove è operaio prima, in una fabbrica di plastica, impiegato dopo, insieme al fratello Antonio, in uno spaccio di generi alimentari nella città del Duomo. E lui portava la Puglia anche li, la sua terra, insieme all’altro storico cantore carpinese, che era proprio suo fratello Antonio. Poi quella brutta polmonite e l’aria del nord, grigia e sporca, che aveva fatto peggiorare la sua salute, fino alla decisione di ritornare in paese. Il ritorno, porta con sé il ritrovato amore per il canto e per le tradizioni popolari. Ormai non cantava da tempo, ma quelle parole memorizzata durante l’attività di pastorizia, mai hanno lasciato mente e cuore. Quella tradizione orale, che rispecchia in pieno la caratteristica dei cantore, in lui trova manifestazione piena. E Mike ha saputo e voluto traferire questo patrimonio ai giovani. Gli stessi che cantano e ballano insieme a lui. Con cui per due anni ha condiviso gran parte della sua vita. Sono i ragazzi di Malicanti. Lui ha trasferito a loro il suo sapere, loro lo hanno portato fuori da Carpino, dal Salento alla Calabria, fino ai palchi di tutta Italia. “All’inizio era restio a salire sul palco, aveva un sentimento di timidezza e imbarazzo. Aveva vergogna, diceva lui. Ma poi la gioia di condividere, di fare festa, e stare insieme è stata più forte”. Il ricordo di Pio Gravina, che con lui ha condiviso questo progetto, è intimo e di gioia, nonostante la perdita. “I canti e suoni della tradizione. Il progetto era questo. Traferire tutto questo sapere per non perderlo con la scomparsa degli ultimi cantori. E Mike è stato protagonista assoluto. Dopo la morte di suo fratello ha vinto anche le resistenze iniziali e si è dedicato a questo progetto, come se sentisse di avere una responsabilità verso questa tradizione. Il suo approccio con il pubblico, poi, era bellissimo. Diretto, semplice e forte. Ela sua è rimasta fino alla fine, fino alla vecchiaia, una delle voci più belle di Carpino”. Una voce che resiste al tempo, limpida, pulita, d’impatto. Come lui. “Era un uomo forte, dal carattere dominante. E spesso, soprattutto nei viaggi, ci sorprendeva per la sua grande resistenza fisica. Sul palco poi era un trascinatore. Si portava dietro numerosi fan che lo seguivano nei vari concerti e lui di questo era davvero molto orgoglioso. Era un vanto per lui. Un uomo allegro, festoso, un trascinatore”. Un trascinatore al punto che nel giorno del suo compleanno, da quando aveva compiuto 85 anni, veniva organizzata una festa-evento. Un catalizzatore, di varie generazioni, che manteneva viva la magia del Carpino Folk Festival. “la sua voglia di far festa, di incontrarsi e stare insieme è stata il motore dietro cui ci siamo mossi per tantissimi eventi e momenti. E grazie al lavoro dell’associazione, il Carpino Folk Festival, il progetto Voci e canti della tradizione di Carpino, è stato possibile non perdere questa magia”.
Una magia che non deve dissolversi anche ora che sono venuti meno i cantori storici. “E’ stata una campagna importante di ricerca – spiega Luciano Castelluccia – che ha portato i ragazzi a incontrare e censire tutti i cantori, non solo quelli più famosi di Carpino e di raccogliere tanto materiale di casa in casa, ascoltando e memorizzando tantissima parte di questo patrimonio”. Anche per lui la figura di Mike lascerà un grande vuoto e tanti ricordi bellissimi. “Eravamo andati alla Notte della Taranta. Stanchissimi.
Si era fatto tardi quella sera. Eravamo andati a letto all’alba. Verso le sette me lo ritrovo davanti, mentre ancora dormivo. Lui brandiva un giornale. Lo aveva piegato e lo usava per svegliarmi. Lo batteva fra i miei piedi, per convincermi ad alzarmi che dovevamo rientrare, perché era la festa di San Rocco e lui voleva tornare a casa in tempo per preparare il ragù e mangiare con tutta la famiglia e poi doveva andare alla Processione. Questi valori. La presenza, la festa del Santo Patrono, la famiglia che mangia insieme. E non c’era stanchezza che poteva fermarlo”. E allora non stancarti Mike, neanche per l’ultimo tuo viaggio. E vai, vola sorridendo e cantando.
TOMMI GUERRIERI su l’Attacco del 12/01/2022
MUSICA POPOLARE LA TRADIZIONE GARGANICA COME UN ELEMENTO IDENTITARIO
Il genius loci con melodia
Mike Maccarone per noi era un informatore. È la definizione di Luciano Castelluccia, storico direttore artistico del Carpino Folk Festival, tra i fondatori dell’omonima associazione che a partire dal 1996 tradusse l’antica tradizione dei Cantori in un vero e proprio brand artisticoculturale. Un evento catalizzatore in grado di dare riconoscibilità a un territorio attraverso la sua musica popolare, quella che cantavano i pastori, gli allevatori, i potatori di ulivi di un entroterra garganico aspro ma non per questo meno affascinante della sua frangia costiera. «Si cantava per sopportare meglio la fatica – spiega Castelluccia –, per alleggerire il lavoro manuale, come faceva anche Mike da giovane, intonando quei canti che si tramandavano di generazione in generazione».
Ed è qui che entrano in scena gli “informatori”, i depositari della memoria autentica che, oralmente, hanno da sempre l’incarico di tramandare il canto, proprio come l’ultimo pezzo di storia della musica popolare del Gargano scomparso lo scorso 10 gennaio. Ultimo ad andarsene e a lasciare, di fatto, un buco storico, tanto da domandarsi cosa ne sarà, adesso e in futuro, dei Cantori di Carpino.
«La tradizione continua – ha risposto in merito Castelluccia – perché c’è un gruppo che ha conservato il nome dei Cantori di Carpino, ad oggi composto da una formazione più giovane e rappresentata da colui che può essere definito l’erede: Nicola Gentile». Tammorra e voce, con i suoi settant’anni è attualmente il più anziano dell’ensemble odierna, forte della sua lunga esperienza al seguito dei tre storici cantori Sacco, Maccarone e Piccininno – a quest’ultimo fu dedicato nel 2016 “Chi sona e canta no nmore maje”, terzo disco prodotto dall’associazione culturale Carpino Folk Festival in cui, tra i protagonisti e interpreti, c’era proprio Gentile.
«Ma è importante sottolineare che la tradizione carpinese si sta conservando perché negli anni il lavoro dell’associazione e degli stessi abitanti di Carpino non si è limitato solo all’evento di massa – spiega ancora Luciano Castelluccia – indirizzandosi anche verso una ricerca culturale, sonora e testuale». Circa vent’anni sul campo, dunque, etnograficamente parlando, con l’obiettivo di fornire alle nuove generazioni un punto di vista storico, per non dire scientifico: interviste, aneddoti, saperi che sono stati acquisiti dalle voci autentiche dei cantori. «Abbiamo un’antropologia importante trasmessa oralmente – continua Castelluccia – e Mike Maccarone faceva parte di quella classe di età che ci permetteva di approfondire e non commettere errori». Un ponte tracciato per quei ventenni che già da qualche anno assaporano il fascino dei canti, menando a memoria testi e giri di tammorra, sentendoseli propri, poiché «li vedono come un momento di aggregazione da tirare fuori durante le festicciole, non senza un certo orgoglio».
Una luce, dunque, per i cantori di domani.
IL RICORDO FU PROTAGONISTA INSIEME AD ANDREA SACCO, ANTONIO PICCININNO E ANTONIO MACCARONE
«Farfone» è muto
Il blues del Sud pure
L’ultimo. L’ultimo di una generazione antica, depositaria della tradizione musicale garganica. L’ultimo dei “vecchi” Cantori di Carpino.
È Mike Maccarone, detto “Fàrfonë”, cantatore spentosi a novantasei anni lo scorso 10 gennaio, a Carpino, dove mai, sennò?
Con lui se ne parte la primavera, si potrebbe dire, rubando al grande De André una carezza espressiva in grado di rendere giustizia a quello che può essere considerato, con paradosso retorico, il quarto cantore dello storico trio carpinese.
Andrea Sacco, Antonio Piccininno e Antonio Maccarone: loro sono i primi, infatti, gli iniziatori, coloro i quali hanno riportato in auge l’antica tarantella garganica entrando, a partire dagli anni ’50, nelle registrazioni di etnomusicologi italiani e stranieri – su tutti l’americano Alan Lomax, colui che “rese” blues la musica tradizionale del sud Italia. A cavallo tra gli anni ’90 e la fine del secolo scorso poi, grazie all’associazione Carpino Folk Festival, l’esplosione: concerti, incisioni, festival, collaborazioni con artisti. Davanti, i succitati tre “frontman” ottuagenari e dietro le quinte, senza mai salire sul palco, Mike, fratello minore del più famoso Antonio Maccarone.
«Non si è mai voluto esibire – racconta Pio Gravina, musicista e autore, con Enrico Noviello, dell ’irrinunciabile libro-cd “Canti e suoni della tradizione di Carpino”–ma era un cantore a tutti gli effetti, proprio come l’intera famiglia Maccarone, dove cantavano tutti, dal padre fino all’ultimo dei fratelli. Negli ultimi anni poi, è venuto fuori».
Una carriera artistica che comincia a ottantacinque anni, trent’anni dopo il suo rientro a Carpino, con un’altra vita da operaio a Milano, lui come suo fratello Antonio, nati pastori.
Dal 2010 anche Mike comincia a salire sul palco, a diffondere la rodianella, la viestesana e la montanara: i tre stili carpinesi dell’ormai istituzionale musica popolare del Gargano. «Negli ultimi anni ha preso parte a tanti concerti –racconta ancora Gravina – compresa la Notte della Taranta, cantando con il gruppo dei Malicanti. Si è esibito in Salento, a Roma, a Milano… “L’avessi fatto prima, saremmo andati in giro per il mondo”: è ciò che ripeteva».
ALESSANDRO GALANO 13 GENNAIO 2022 L’EDICOLA DEL SUD
NON C’È STATA NESSUNA DIVERSITÀ DI VEDUTE, L’ASSOCIAZIONE CULTURALE CARPINO FOLK FESTIVAL DOPO DUE ANNI DI AFFERMAZIONI AMBIGUE, SPECULATIVE E CONFUSIONARIE HA PORTATO A CONOSCENZA DEL PROPRIO PUBBLICO:
1) CHE E’ ESTRANEA ALL’ORGANIZZAZIONE DEL SEDICENTE FESTIVAL NATO SU INIZIATIVA DEL SINDACO DEL COMUNE DI CARPINO
2) CHE IL SINDACO HA DETERMINATO LA SOSPENSIONE DEL CARPINO FOLK FESTIVAL CON LA MANCATA CONCESSIONE DI UN AREA SICURA CHE ANDAVA INCONTRO ALLE INDICAZIONE DELLA QUESTURA E CONSENTISSE IL RISPETTO DELLE LEGGI in materia di sicurezza, sanità, inquinamento acustico, sicurezza e igiene sugli ambienti di lavoro, di viabilità, etc.;
3) CHE IL SINDACO, INVECE, DI CHIEDERE FINANZIAMENTI PER LAVORI DI ADEGUAMENTO DELL’AREA DA NOI INDIVIDUATA, HA PREFERITO ANDARE A CHIEDERE PER IL SUO FESTIVAL I FINANZIAMENTI CONSOLIDATI DAL CFF PER TUTTO QUANTO FATTO in tanti anni a Carpino e sul Gargano nell’interesse di tutto il movimento culturale pugliese;
4) CHE L’EVENTO CREATO DAL SINDACO SPECULA SUL LAVORO FATTO IN XXIII ANNI DAL CARPINO FOLK FESTIVAL CON PRATICHE SCORRETTE ED INGANNEVOLI volte a confondere il pubblico e gli artisti;
5) CHE LE RISORSE PER REALIZZARE L’EVENTO DEL SINDACO VENGONO AFFIDATE PER IL SECONDO ANNO SENZA GARA ad un organismo appena nato, dopo il flop della prima edizione e dopo la bocciatura del progetto nel settembre 2020 da parte della Regione Puglia (leggi “ritorno al sud”) e da parte del Ministero della Cultura a giugno 2021 (leggi “urban regeneration” in Borghi in Festival)
6) CHE TALI AFFIDAMENTI DIRETTI CONSENTONO DI PERPETUARE SPECULAZIONI NEI NOSTRI CONFRONTI E FALSANO LA CONCORRENZA FRA GLI OPERATORI DELLO SPETTACOLO PUGLIESE tanto più quando non prevedono quote di cofinanziamento, vincoli e controlli sull’attività e il rispetto degli stessi indicatori che vengono richiesti invece a tutti gli altri.
7) INFINE CHE SI STA OPERANDO LA SOSTITUZIONE DEL CARPINO FOLK FESTIVAL IN OGNI DOCUMENTO DI PROGRAMMAZIONE SCREDITANDO LA NS ASSOCIAZIONE CON INSINUAZIONI SULLA GESTIONE DEL FESTIVAL QUANDO INVECE BISOGNEREBBE CHIARIRE PERCHE’ LA NEO CREATURA SPENDE PIU’ SOLDI PUBBLICI PER FARE MENO DELLA META DELLE ATTIVITA DEL CARPINO FOLK FESTIVAL (vedi https://tinyurl.com/5ebba3r8).
QUELLO CHE STA PER PARTIRE, PER MAX 200 PERSONE, VALE TUTTI I SOLDI PUBBLICI CHE GLI SONO STATI AFFIDATI SENZA GARA?
E NON FINISCE QUA perchè prima o poi, con calma e con l’arrivo dell’aria fresca di settembre, dovremo pur arrivare al vero motivo per cui il festival di ROCCO DRAICCHIO è diventato a Carpino il nemico pubblico numero uno.
IN MEMORIA DI ROCCO DRAICCHIO
Presidente Ass. Culturale
Carpino Folk Festival
Mario Pasquale Di Viesti
Il Sindaco ieri sera ha tenuto il suo comizio estivo nella piazza di Carpino per ripercorrere l’attività amministrativa, ma non ha voluto affrontare le questioni che lo tengono sui quotidiani locali negli ultimi giorni, negando ancora responsabilità sulla sospensione del Carpino Folk Festival (anche se adesso vede un problema di congestione in Piazza) e confondendo ancora l’oggetto delle tradizioni di Carpino (la corsa dei cavalli è una tradizione, la modalità di esecuzione della montanara è una tradizione, la produzione delle fave sono una tradizione, il festival, quando raggiunge il suo scopo, è una vetrina, un divulgatore, uno strumento di valorizzazione) non ha proferito parola sulle questioni che gli ha posto il quotidiano L’ATTACCO.
1) COME HA FATTO AD OTTENERE COSI TANTI SOLDI IN COSI POCO TEMPO PER UNA PRIMA EDIZIONE, QUANDO PER GLI ALTRI CI VOGLIONO DECENNI?
2) E’ VERO CHE IL FESTIVAL CHE HA IDEATO NEL REPERIRE LE RISORSE PUBBLICHE HA UN CANALE PREFERENZIALE CHE FA LEVA SUL LAVORO FATTO DAL CARPINO FOLK FESTIVAL?
Per mostrare perchè il Carpino Folk Festival è un’altra cosa e una parte delle ragioni che ci hanno portato a prendere le distanze potete scaricare un lavoro di comparazione fra l’iniziativa del Sindaco 2019 e il Carpino Folk Festival 2018: https://tinyurl.com/5ebba3r8
70.000,00 – TEATRO PUBBLICO PUGLIESE (Determina Comunale n. 84/2019) 8.000,00 – COMUNE DI CARPINO (Determina Comunale n.135/2019) 10.000,00 – PARCO DEL GARGANO (Determina Parco n.337/2019) 15.000,00 di cui PROQUOTA – REGIONE PUGLIA coorganizzazione eventi (vedi Determina Comunale n. 70/2019) 30.000,00 di cui PROQUOTA – REGIONE PUGLIA ASS. AGRO-ALIMENTARE (Determina Regionale n. 47873/180/2019)
Senza entrare in particolarismi, potete vedere nella tabella che il Sindaco ha fornito un’offerta artistica con l’intendo di sostituirsi al Carpino Folk Festival e ha fatto intendere che chiunque avrebbe potuto fare quello che faceva lo staff dell’Associazione Culturale Carpino Folk Festival, sminuendone le capacità e le competenze specifiche. Non parlo del pubblico che non è accorso a vedere gli spettacoli com’era ampiamente prevedibile. Non parlo neanche della vetrina (la promozione territoriale, la valorizzazione culturale, l’attrattività, ect) che non è mai stata accesa se non per chi si stupisce che i Cantori infiammino la piazza di Carpino nella serata a loro dedicata facendo ballare i carpinesi. Non parlo neanche della qualità degli artisti perché sarebbe scorretto nei loro confronti, non c’entrano nulla, è sbagliato tirarli in ballo, sono tutti bravissimi anche se non erano certamente novità assolute per Carpino o per la provincia di Foggia. Mi riferisco semplicemente all’iniziativa artistica facendo finta di non sapere come è andata, che i numeri degli spettatori e i nomi e la qualità degli artisti non hanno la loro importanza, e quindi la valutazione la faccio solo in base alle quantità. La tabella è molto chiara: pur avendo a disposizione sostanzialmente più soldi pubblici del Carpino Folk Festival ed. 2018, pur essendo liberi da lacci e lacciuoli e pur avendo a disposizione il cash (i soldoni) prima dell’avvio delle attività, sono stati messi in programma 9 spettacoli, contro 18 del CFF 2018, 3 giornate anziché 6 di programmazione, 0 performance internazionali anziché 2, e coinvolti 41 artisti anziché 102 del CFF 2018. La tabella, poi, dice anche altro e bisognerebbe parlarne, ad esempio del raggio d’azione, della capacità di coinvolgimento o della capacità di fare memoria, perché sono tutti aspetti da considerare se si vogliono far bene le cose e spendere bene i soldi dei cittadini.
Il Sindaco tace, la tocca piano, ma a questo punto dovrebbe spiegarci perché continua a insinuare una cattiva gestione (e mi sono già impegnato a riferire al Consiglio Comunale se verrò convocato) del Carpino Folk Festival quando la sua creatura spende di più per fare palesemente di meno?
APPENA AVREMO LE CONVENZIONI E LE DETERMINE MOSTREREMO CHE ANCHE QUEST’ANNO LA STORIA SI RIPETE.
In attesa delle spiegazione, voglio dire che, se il Carpino Folk Festival avesse svolto l’edizione 2019, con il programma e con i risultati prodotti dal Sindaco, in Regione Puglia ci avrebbero mandati via e certamente NON ci avrebbero confermato il finanziamento accordato, perché i soldi non stati spesi bene visto che gli indicatori di qualità e quantità stabiliti e controllati puntigliosamente delle commissioni deputate alle verifiche non sono stati raggiunti. Non servono grandi competenze nello spendere il denaro dei cittadini. Ci vuole, invece, una particolare esperienza per spenderlo bene e con efficacia, e non per “interessi” personali.
Presidente Ass. Culturale
Carpino Folk Festival
Mario Pasquale Di Viesti
Dopo le promesse mancate, fatte in piazza in pubblico comizio, mi sono rifiutato di sedermi nuovamente al tavolo delle tre carte ed oggi mezzo stampa ho chiesto al Sindaco (che non si fida evidentemente dei rendicontatori della Regione e di tutti gli altri enti che ci hanno sostenuto) di essere invitato in Consiglio Comunale per mostrate tutta la documentazione del festival alla presenza dei giornalisti che riterranno opportuno intervenire.
Il mio solo scopo è mostrare una volta per tutte che l’Associazione Culturale Carpino Folk Festival ha avuto come unico “interesse” quello di valorizzare le tradizioni musicali di Carpino e del Gargano e con essa promuovere il nostro territorio a chi in questi anni evidentemente deve aver avuto lo sguardo rivolto ad altro visto che non si è accorto che i ragazzi dell’organizzazione negli ultimi 23 anni sono stati nelle piazze, nelle vie, nei teatri, nelle sale stampe ed anche nei treni e nelle stazioni e masserie e quindi continuamente sotto i riflettori per accendere i fari che hanno illuminato le particolarità del nostro Gargano
Il Presidente Ass. Culturale
Carpino Folk Festival
Mario Pasquale Di Viesti
Attacco VENERDI 30 LUGLIO 2021
POLEMICHE&CULTURA
Tommi Guerrieri
Vale circa centocinquanta mila euro il Carpino Folk Festival. E’ intorno a questa cifra e intorno ai fondi messi insieme che si accende l’aspro botta e risposta fra il Sindaco di Carpino Rocco Di Brina e Pasquale Di Viesti, presidente dell’associazione culturale del Festival.
Rompe il silenzio Di Viesti e precisa che si assume tutta la responsabilità del comunicato stampa diffuso a nome dell’associazione. Lo precisa perché i componenti dell’associazione sono stati molestati telefonicamente. Presi in giro per l’inutilità di quelle spiegazioni diffuse sulla presa di distanza di Di Viesti dalla nuova gestione del Festival, il Carpino in Folk.
Finite le telefonate moleste, anche il Sindaco prende la parola e inizia a dire cose. Definisce le dichiarazioni di Di Viesti urla di rabbia e frustrazione, come quelle delle marmotte che si svegliano dal letargo. Ma ora che si sono svegliate, queste marmotte, hanno tante cose da dire. A partire, naturalmente dai soldi. Soldi e politica. Di Brina dice che il Carpino Folk Festival “si e alimentato con soldi pubblici ottenuti non solo attraverso bandi, ma grazie all’impegno di qualcuno che oggi viene preso di mira solo
per essersi preso la responsabilità di non far morire le nostre tradizioni”, “Caro Sindaco -replica Di Viesti-noi rispondiamo a bandi e otteniamo finanziamenti regolari.
Nel 2017 ci siamo presentati e posizionati al quarto posto di una graduatoria regionale. Ora lei sostiene che siamo andati avanti grazie alla sua intercessione. Quindi dice apertamente che questo suo intervento ha modificato le sorti di una graduatoria di merito. E chissà cosa ne pensano in Regione…”Sempre sui soldi, la diatriba si accende ancora. Il Sindaco mette in dubbio la gestione economica del passato. Eppure, Di Viesti sostiene che gli ha lasciato un rendiconto del 2016 che ancora non è stato interamente saldato. “Mancherebbero circa mille euro..”
Prende tempo dicendo che non c’è liquidità. E visto che mette in dubbio la nostra gestione, lo invito a visionare anche ora i rendiconti della gestione precedente, cosi gli dimostriamo come si fa, quando si fanno le cose in modo corretto”
L’associazione sceglie di parlare per dare una spiegazione. “Abbiamo gestito molti soldi pubblici – continua Di Viesti – ed è giusto dare un segnale agli Enti che ci sono stati vicini per anni. Ora però vorrei sapere qualcosa dei soldi dello scorso anno, quando sono arrivati all’organizzazione nata nel 2019 su iniziativa del Sindaco, oltre ai 30 mila euro dall’Assessorato Re-
gionale all’Agricoltura, oltre al soldi del Parco e ai soldi del Comune, anche i 70mila euro dritti dritti dal Teatro Pubblico Pugliese. Come sono stati spesi? E dove sono i rendiconto di quei 70 mila euro?”
Il punto, spiega Di Viesti, è che i bandi regionali assegnano fondi in base ai numerosi aspetti che tengono in considerazione, fra cui anche la capacità di cofinanziarsi. Di trovare quindi altri sponsor e sostenitori. Ci sono poi aspetti come la storicità dell’evento, che entrano in merito. Ecco perché per un’associazione nata nel 2019 diventa più difficile dimostrare affi-
dabilità e un legame con il territorio, se non si sfrutta il lavoro fatto in passato da chi c’è stato prima.
Ma quando si scopre che sono nati due anni fa, perdono. E infatti sono stati bocciati al bando del Mibact. E visto che le marmotte si sono svegliate, “d’ora in avanti nessuno potrà fare finta di non vedere, non sapere e non capire”, conclude Di Viesti.
NESSUNA CONTINUITÀ, SOLO PRATICHE SCORRETTE ED INGANNEVOLI
COMUNICATO STAMPA
Carpino, li 28/07/2021
L’Associazione Culturale Carpino Folk Festival è del tutto estranea all’organizzazione del sedicente festival, nato nel luglio 2019 su iniziativa del Sindaco del Comune di Carpino.
L’escamotage usato a pretesto dal Sindaco era volto a fronteggiare il calo turistico dovuto, a suo dire, alla pausa che dal 2019 si erano presi gli organizzatori del CFF, il festival della musica popolare e delle sue contaminazioni. La verità è che il Carpino Folk Festival è stato costretto a fermarsi, perché, visti i numeri in crescita, non poteva più proseguire con gli eventi in Piazza del Popolo, specie a fronte del parere contrario della Questura e stante la palese violazione delle norme di legge in materia di sicurezza, sanità, inquinamento acustico, sicurezza e igiene sugli ambienti di lavoro, di viabilità, etc.
Abbiamo tollerato anni di promesse disattese e abbiamo fatto investimenti diretti a spostare le serate centrali della manifestazione in un’area più sicura ma davanti all’ennesimo impegno non onorato abbiamo detto basta e ci siamo fermati. Ci siamo fermati perché abbiamo rispetto della legge ma, soprattutto, perché abbiamo rispetto del nostro pubblico e non volevamo essere ricordati per quelli che sono andati avanti nonostante tutto e hanno partorito l’ennesima tragedia annunciata.
L’Associazione Culturale Carpino Folk Festival ha assunto un ruolo da protagonista nell’attuazione di programmi regionali e nazionali frutto dell’attività realizzata in tanti anni a Carpino e sul Gargano nell’interesse di tutto il movimento culturale pugliese, eppure, per fare un esempio, nei documenti della Strategia dell’Area interna del Gargano, il Carpino Folk Festival viene, nell’indifferenza di tutte le istituzioni coinvolte, con disinvoltura sostituito come evento più rilevante del territorio per lo sviluppo della strategia d’integrazione dell’offerta turistica sostenibile ed esperienziale da chi sta facendo appassire la socialità e il patrimonio musicale del territorio .
Assistiamo a frustranti speculazioni, accostamenti forzati e funamboliche similitudini volte a confondere il pubblico e gli artisti. Un parassitismo che ha lo scopo di sfruttare quello che l’Associazione Culturale Carpino Folk Festival ha costruito in anni di duro lavoro. È innegabile, infatti, che la nostra rassegna si è guadagnata un posto di rilievo tra le più importanti manifestazioni regionali, del sud Italia e nazionali. E’ discutibile l’affidamento di finanziamenti pubblici, senza gara, per consentire di perpetuare tale speculazione nei nostri confronti. A tutela del nostro bagaglio e di quello che in tutti questi anni abbiamo costruito stiamo valutando, nostro malgrado, l’opportunità di rivolgerci sia in sede amministrativa che all’autorità giudiziaria per tutelare i nostri diritti e interessi.
Adesso, dopo due anni di silenzio, è arrivato il momento di far sentire la nostra voce e prendere le distanze, rivendicando la nostra diversità e, soprattutto, la nostra libertà. Non è compito nostro esprimere giudizi e pareri ma la precisazione di oggi è doverosa, per correttezza nei confronti di chi fa affidamento sulla credibilità e sulla serietà che abbiamo ampiamente dimostrato in XXIII edizioni consecutive.
Il Carpino Folk Festival non è solo un festival musicale, è sudore e sangue, è condivisione, è voglia di comunicare la nostra terra e le nostre tradizioni e far comprendere quella ostinata speranza della buona gente del Sud che continua a sognare riscatti, risvegliandosi puntualmente delusa e amareggiata.
Visti i continui e non pertinenti richiami agli ideali del fondatore del Carpino Folk Festival, ROCCO DRAICCHIO, va affermato con forza che i principi che hanno mosso il lungimirante fondatore del Carpino Folk Festival, sono lontanissimi ed incompatibili rispetto al modus operandi a cui siamo costretti ad assistere. Questo marca un punto di netta differenza con l’Associazione Culturale Carpino Folk Festival che sull’eredità degli ideali di Rocco Draicchio, che non sono mai stati traditi, ha sempre mantenuto, caparbiamente e con grandi difficoltà, libertà e indipendenza culturale che, come risultato, hanno portato alla rinascita economica e culturale del luogo e, quindi, al riscatto sociale della nostra comunità, altro che urban regeneration per suonare il piffero dell’abbellimento del paese.
D’ora in avanti nessuno potrà far finta di non saperlo, di non vedere, di non capire.
Siamo fuori di testa, ma diversi da loro!
P.S. Infine, agli artisti che verranno a cantare “Bella Ciao” vogliamo dire per chiarezza e correttezza che chi gli ha firmato i contratti, nel novembre 2019, è stato investito del ruolo di segretario cittadino della Lega – Salvini Premier.
Il Presidente Associazione Culturale
CARPINO FOLK FESTIVAL
Mario Pasquale Di Viesti
Nino Antonacci, ideatore e animatore dell’evento a Rione Fossi, non ci sta: “Lo sfruttamento dello stesso nome appare parassitario e incoerente”
di TOMMI GUERRIERI su l’Attacco di mercoledi 21 luglio 2021
Metti che artisti del calibro di Robben Ford, storico chitarrista di Miles Davis, hanno una sola data in Italia per il loro concerto. E questa data è ad Accadia. L’Accadia Blues Festival. Metti che altri artisti ugualmente importanti, ne abbiano due o tre sole, in Italia. E una di queste date sia sempre Accadia. Metti anche che a questo Festival arrivino appassionati dal Salento, dalla Puglia, ma anche dal resto d’Italia, dall’Inghilterra e dalla Svizzera. E che oltre ai nomi di grande richiamo, ci sia la location Il Rione Fossi, che diventa suggestivo scenario naturale, che rivive con due palchi e numerose attività commerciali a fare da supporto. Tu cresci e arrivi all’undicesima edizione, ma poi all’improvviso, cambia il sindaco di Accadia, la città che lo ospita e da cuill Festival prende il nome, e i nuovi amministratori siano sordi alla tua voglia di continuare a fare il festival. Non ti chiamano, non ti ricevono e non ti rispondono. Anzi, ti ignorano. Cambiano gli organizzatori e mettono su il loro programma.
Una storia andata già in scesa anche a Carpino dove con modalità molto molto simili si mette fine allo storico Carpino Folk Festival e si crea il Carpino in Folk. Colpo di spugna e si cancella tutto. Nel timido silenzio di chi viene messo da parte. Relegato a questo silenzio, al punto che è costretto a esprimere dispiacere e amarezza attraverso scarne parole, che esplicitano una non polemica. Una triste arrendevolezza alla consuetudine. Pasquale Di Viesti, del Carpino Folk Festival lo aveva detto mesi fa. Siamo in contrasto con l’amministrazione guidata dal sindaco Rocco Di Brina e non vogliamo rilasciare interviste per non alimentare polemiche. Restiamo in silenzio in attesa di tempi migliori”. Ad Accadia gli organizzatori scrivono che l’edizione 2021 appena presentata dall’amministrazione guidata dal Sindaco Agostino De Paolis “nulla ha a che fare con la direzione artistica di tutte le precedenti edizioni del Festival. Ci teniamo a precisare che la nostra organizzazione e direzione artistica ne è stata anche la madre che l’ha concepito, gli ha dato un nome, l’ha fatto crescere, l’ha amato e lo hareso quello che ė, o meglio che è stato, dal 2010 fino allo scorso 2020, con immenso impegno, dedizione e orgoglio”.
Il Festival Blues nasce da un’idea di Nino Antonacci. “Accettai di partire con questo festival nella speranza che facesse la storia ad Accadia, ricorda l’allora Sindaco Pasquale Murgante. “Capii che avrebbe dato lustro al paese”. Il primo anno in cartellone a sono nomi internazionali che in breve tempo hanno fatto uscire il Festival dal territorio, trasformandolo in appuntamento di richiamo per l’importanza degli ospiti e la bellezza dell’evento. “Ora era giunto alla sua 11esima edizione, aveva portato avanti un percorso di crescente interesse da parte del pubblico e di critica, proprio pergli artisti che si esibivano e che venivano invitati. Ma al cambio dell’amministrazione sifa tabula rasa del passato e oggi si propone un cartellone che con il blues a poco a che fare a mio dire. Sembra piuttosto un pacco napoletano, dove al posto della radio e del telefono che pensi di aver acquistato apri la scatola e troviun mattone”. “Una volta compreso il cambio di rotta legittimo ma celato fino all’ultimo, da parte della nuova Amministrazione di Accadia – scrivono gli storici organizzatori in un post – abbiamo inoltrato fomale e cordiale richiesta ad essa, di non utilizzare lo stesso nome per non creare confusione con la nuova manifestazione e direzione artistica. Tale richiesta è purtroppo caduta nel limbo dell’indifferenza sordomuta, e lo sfruttamento dello stesso nome, appare parassitario o quantomeno incoerente, dato che al tempo stesso non è stato riconosciuto evidentemente, il valore del nostro lavoro”. Insomma: gli organizzatori hanno chiesto un incontro prima per rinnovare la loro disponibilità mal’amministrazione non ha mai risposto e nemmeno li ha mai convocati. Poi hanno anche scritto una lettera, per dire di non appropriarsi del nome, ma nessuna risposta nemmeno a questa sollecitazione.
“Gli Unni erano meglio, almeno non agivano mossi da infantilismo sciocco. Sono comportamenti che ritengo ingiustificabili. Un’amministrazione che tenta di distruggere tutto ciò che è stato fatto, credo generi un danno alla sua comunità e all’intero territorio. Il risultato è quello che si vede oggi. Abbiamo perso un’altra eccellenza della Provincia di Foggia. – continua Murgante- Non sono un grande intenditore, ma non mi pare che siano nomi di spicco. Chissà se ci saranno visitatori e se Accadia per una settimana si animera…
La serata di domenica si chiuderà con un evento di musica napoletana in montagna. I nomi? Sono nomi che possono fare da richiamo per la gente del paese, che mentre passeggia magari ascolta anche la musica… ben diverso da ciò che era prima questo festival. Demolire poi anche il Rione Fossi, quella rinascita che ne era stata… I due palchi….ora invece l’evento si svolgerà nella piazzetta del paese e anche le attività di supporto, quelle commerciali, non si potranno svolgere. Il fascino del Rione Fossi era unico, un luogo che si rianimava in occasione del Festival Blues”.
Insomma, proprio come a Carpino, anche ad Accadia il lavoro di anni è andato distrutto. Per cosa? Qualcuno dice banalità, invidia, stupidità. Non vuole commentare Nino Antonacci. “Metto acqua sul fuoco, non benzina. Ho sentito con le mie parole di dover solo tracciare un solco fra il passato e il presente. Non mi permetterei di entrare nel merito di questo Festival, dico solo che non é piu quello che ho ideato e pensato io. Cosi come è un diritto legittimo degli amministratori cambiare, credo che lo sia anche il mio di voler prendere a questo punto, le distanze”.
Il Sindaco Agostino De Paolis contattato telefonicamente da l’Attacco risponde a tarda serata. Gli chiediamo come mai abbia scelto la linea della discontinuità nell’organizzazione e della continuità invece nel nome del festival. “Faccio fare la manifestazione a chi ritengo opportuno. O dobbiamo dare conto a voi? L’organizzazione precedente era affidata a un privato che ha guadagnato per molti anni. Lei permette che ora decida io a chi dare i soldi del Comune e che impostazione dare alla manifestazione? E non cambio il nome perche l’evento é del Comune, non certo del privato. Dice di non aver incontrato Antonacci perchè si è rivolto al vicesindaco e non a lui, ma che in ogni caso, non ci sono motivi di scontentezza rispetto al passato, solo la voglia di una nuova amministrazione di evolversi: “Sarà un evento più volto a recuperare il filone Daunia-Campania, perchè questo, più del blues che non ha a che fare con la tradizione, sarà una svolta per Accadia”. Legittimo. Ma chissà allora perche lo continua a chiamare così..
A distanza di tre anni la versione di TOMMI GUERRIERI sull’ATTACCO di mercoledi 30 giugno 2021
Il mesto epilogo del festival di Capitanata. Il CFF: da “setta satanica” a un addomesticato silenzio in attesa di tempi migliori
Non sono solo Festival. E quello di Sanremo a livello nazionale ne è ancora l’esempio. Una kermesse di musica su cui dirigenti di reti, istituzioni e artisti si giocano carriere e reputazione. Perché citiamo Sanremo? Perché nell’immaginario collettivo è l’emblema dell’evento canoro che divide, distrugge e santifica. In Puglia c’è quello salentino, che ormai è volato oltre i confini regionali, la Notte della Taranta e poi c’erano i Festival della Capitanata, eterna controversa Cenerentola, che almeno in questo era riuscita a dire la sua esprimendo con Apricena, Orsara, Carpino e Monte Sant’Angelo il meglio della musica tradizionale popolare. Oggi, di quel fermento che ha fatto la storia, di artisti e territorio, è rimasto molto poco. Troppo poco, diremmo. Solo Festambiente resiste. E diventa Festival del Territorio. Manifestazione itinerante, quest’anno fra Monte Sant’Angelo e Vieste. “Non ci fa piacere – dice l’ideatore e organizzatore Franco Salcuni essere rimasti l’unico Festival del territorio. Dovremmo interrogarci e capire che cosa non ha funzionato”.
La domanda è più che lecita. La risposta oggi la troviamo guardando poco lontano.
Carpino. Un luogo che tutti hanno conosciuto grazie al suo Festival. Quel Carpino Folk Festival fondato nel 1996 da Rocco Draicchio. Primo evento che è riuscito a trasformare un paese in un teatro, in cui ad andare in scena erano l’arte, la cultura, la musica, le tradizioni popolari. Agosto era Carpino. E Carpino era il Festival. Ora questo ricordo genera solo rabbia e amarezza. In tutti. In un territorio mortificato da questa perdita, avvelenato da guerre di principi che non fanno che impoverire e dividere. Superfluo spiegare cos’era il Carpino Folk Festival. “All’inizio non lo volevamo – ci ha raccontato uno dei commercianti del centro garganico – perche portava gente strana, che beveva e fumava. Gente che ci faceva paura. Ma con il passare degli anni è diventato la nostra vera ricchezza. Da ogni punto di vista. Sia per l’indotto economico che generava. Sia per l’enormità dei contenuti che passavano di qua. Era una gioia vedere quanta gente e quanta festa si faceva intomo a questo evento. Oggi, quello che è successo, è un dispiacere per tutti”.
Ma cosa è successo? Al Festival è successo quello che da queste parti succede spesso: l’esempio del fallimento di una classe politica che non riesce a vedere oltre il proprio perimetro. Che non coglie opportunità di crescita e di cambiamento, che non vede come risorsa, le espressioni del territorio. Che non vuole supportare, ma controllare, e dove non può, distrugge. Il Carpino Folk Festival si è fermato per ragioni legate ufficialmente alla scelta della sede a divergenze con l’amministrazione comunale sulla location. Il Sindaco, quando l’associazione Carpino Folk Festival decide di non andare avanti con l’evento, defini quelle motivazioni strumentali, disse che erano invece legate a finalità politiche. Che si voleva boicottare l’amministrazione. E dichiaro che anche chi aveva tentato di trovare una soluzione per mediare, era stato invitato ad attenersi alle decisioni prese dai vertici dell’associazione e cosi era andato via. Polemiche su polemiche anche per la decisione di tenere la conferenza stampa di presentazione della nuova associazione, il Carpino in Folk, nella sede della Federazione provinciale del Pd di Foggia. “Una scelta – questa fu la spiegazione fornita dal sindaco Rocco Di Brina – dipesa solo dalla difficoltà di reperire un altro luogo cosi velocemente, lo ho coperto personalmente i simboli del partito. Non avrei mai coinvolto il Pd se avessi trovato unaltro spazio. Mi sono fatto prestare la sede dopo aver coperto i simboli ma il partito non c’entra nulla”. Ma su che fondi ha contato la nuova manifestazione lo hanno visto tutti. Era il 2019 quando vennero destinati 10mila euro al Carpino in Folk, la tre giorni sostenuta da Comune e Regione che stava cercando di compensare l’assenza del CFF e che è costata oltre 88mila euro, stando al piano finanziario complessivo presentato al Parco. Non sono mancati i contributi ad altre numerose manifestazioni estive, ma la spesa più rilevante è legata a Gargano in Folk, fra comunicazione, stampa, grafica, spese di trasporto. Tutto per affidamento diretto.
Ecco perché la classe politica non ricuce, ma gestisce. Distribuisce. Dove necessario, mette una pietra e affossa. Toglie l’aria. E l’aria sono i soldi. Fondi che come per magia si tolgono a uno e si distribuiscono a un altro. Nasce quindi la nuova associazione che non si chiama per ragioni legali nello stesso modo, ma ne scimmiotta nome e finalità e cerca – per il bene del territorio, s’intende – di portare avanti oltre vent’anni di lavoro, sacrifici, passione e cultura. Ma è un favore a chi? Un contenitore per cosa? Dall’altra parte oggi, almeno ufficialmente, il silenzio. Senza voglia di dire nulla.
“Non potevano mettersi insieme e trovare il modo di fare meglio, di fare di più, qualcosa di più grande?”. No. C’è chi sostiene che l’associazione storica era una sorta di setta satanica, difficile da penetrare, rigida e irragionevole, quasi una casta”. E in effetti non è stato possibile parlare o capire le posizioni, né con il Presidente, Pasquale Di Viesti e nemmeno con l’altra anima del Carpino Folk Festival Luciano Castelluccia, chiusi in un silenzio asfittico (eppure anche oggi 01/07/2021 Luciano e Domenico parlano sull’Attacco dei loro progetti culturali e turistici).
Ma le guerre di principi le perdono tutti. I vinti, che si sono rassegnanti, in attesa di tempi migliori che chissà se e quando arriveranno, i nuovi, che pur essendo scesi in campo non hanno saputo o potuto dimostrare di superare i confini locali di un evento che per tradizione è ormai leggenda nell’immaginario di un territorio. E perde la coscienza politica, che invece di unire continua a dividere. E impone la dittatura di un silenzio che fa più rumore di una condanna.
Una setta già fa ridere di per se, satanica è il massimo della risata. Sto pensando all’informatore quanto gusto prova a leggere tutto questo sfascio.