Premiata di recente con la medaglia del Presidente della Repubblica a riconoscimento della sua lunga carriera cinematografica, Cecilia Mangini è considerata da molti la “madre” del cinema documentario italiano. Fin dall’esordio alla fine degli anni Cinquanta, la regista pugliese ha caratterizzato infatti il suo lavoro al cinema con un costante interesse alle problematiche sociali unito ad un sentimento di partecipazione politica e umana alle vicende degli ultimi, riuscendo a tracciare, negli anni del nascente boom economico, un ritratto inedito del nostro Paese. Nasce così la collaborazione con Pier Paolo Pasolini, con cui realizza due documentari che raccontano le grandi periferie della capitale, Ignoti alla città (1958), La canta delle marane e Stendalì – Suonano ancora (1960), girato in un piccolo paese di lingua grika del Salento, Martano, che ricostruisce uno degli ultimi esempi di lamentazione funebre.
Affascinata dallo straordinario e personale modo di Dassin di “trattare” il Realismo nel 1959 fu redattrice di un libro sul Film “La Legge”, in cui racconta l’esperienza italiana del regista francese.
Cecilia Mangini ha esplorato in trent’anni la condizione delle lavoratrici di Essere donne, mediometraggio del 1965: tabacchine, braccianti, emigranti che vedevano nella fabbrica un salto di qualità per la propria esistenza; con Brindisi ’66 (1966), l’impatto del grande petrolchimico Monteshell sulla città di Brindisi e la nascita di una classe operaia, accompagnando nelle sue lunghe fughe in motorino, Tommaso (1965), giovane brindisino con il sogno di entrare nella grande fabbrica appena impiantata. Il mito della boxe, occasione per uscire da una condizione di marginalità, in Domani vincerò (1969), il rischio di un ritorno della dittatura nel nostro Paese, con il celebre All’armi siam fascisti, fino a Comizi d’amore ’80, lunga inchiesta in cui si traccia uno straordinario affresco dei cambiamenti di mentalità in materie come l’amore e la sessualità.
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