Ora la regione deve far maturare la sua primavera
La Puglia ha saputo porsi negli ultimi 20 anni come un territorio in controtendenza rispetto al resto del Meridione. Ma occorre che si interroghi su cosa farà da grande
Per capire le molte sfumature della Puglia contemporanea bisogna andare con la mente al 1991, anno-spartiacque che segna il collasso del vecchio sistema e l’inizio di qualcosa di nuovo. Come ha scritto Franco Cassano in un libretto pubblicato una quindicina di anni fa, Mal di Levante, è intorno a due eventi avvenuti in quell’anno fatidico a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro, lo sbarco dei ventimila albanesi nel porto di Bari in agosto e il rogo del teatro Petruzzelli in ottobre, che si dipana il rapporto dell’Italia sud-orientale con la post-modernità. Ed è interessante notare come alcune opere recenti si interroghino ancora su quegli accadimenti cruciali, a oltre vent’anni di distanza. Nel cinema, Daniele Vicari con «La nave dolce» e Roland Sejko con «Anija (La nave») hanno raccontato l’approdo della Vlora e il successivo trasferimento di quella ingente massa umana all’interno dello Stadio della Vittoria. Più in generale, i due film hanno raccontato il tracollo del regime stalinista albanese e il successivo irrompere dei boat people nel nostro immaginario collettivo. Tale evento, come più volte ricordato, segna la caduta del Muro di Berlino nell’Europa meridionale, un evento dalla portata geopolitica che non può essere ridotto al solo fenomeno migratorio verso le nostre coste, benché esso sia una delle conseguenze più visibili.
In letteratura, l’ultimo romanzo di Antonella Lattanzi, Prima che tu mi tradisca (appena edito da Einaudi), parte proprio dal rogo del Petruzzelli, da quello che Cassano indicava come «il segno di una crisi dura, innegabile, profonda delle classi dirigenti della città», per scandagliare la vita di due adolescenti che crescono «dopo» quei fatti.
Ci si interroga ancora sui due Eventi, benché nel ventennio successivo la Puglia sia molto mutata, perché tale mutazione — come testimoniato anche da altre opere non solo appartenenti al campo cinematografico e letterario — in un certo senso ha a che fare con essi. Se negli ultimi anni si è spesso parlato di rinascimento pugliese, lo si deve ad alcuni fattori di cui quegli eventi e le loro conseguenze (innanzitutto, una nuova presa di coscienza) possono essere percepiti come punte dell’iceberg. Caduto il Muro, la Puglia è tornata a essere una porta conficcata nell’Adriatico. Da periferia della periferia dell’Impero occidentale, è ridiventata crocevia tra Est e Ovest. Il meglio della cosiddetta «primavera pugliese», non solo nel campo delle arti, è riuscita a cogliere tale apertura verso oriente. Soprattutto ha compreso che l’Adriatico può essere uno dei mari- chiave dell’Europa. Quanto al rogo, molte delle migliori energie successivamente liberate a Bari (e non solo a Bari) sono nate dalla constatazione che il territorio regionale andava liberato dalle pulsioni autodistruttive.
Cosa rimane oggi di questa energia che ha reso la Puglia innegabilmente cool agli occhi dei non pugliesi, e che ha fatto parlare di riscatto di questa parte di Sud, proprio nel momento in cui Napoli, Palermo e più in generale il Meridione tirrenico parevano annaspare e avvitarsi su se stessi?
A prima vista tanto. Tuttavia credo che la «primavera pugliese» debba interrogarsi su cosa farà da grande. Essa ha in parte influito, a suo tempo, sul nuovo corso politico tracciato dal successo di Nichi Vendola alle elezioni regionali nel 2005; e in parte è stata sostenuta — non certo diretta — da alcune misure prese dal governo regionale, specie nell’ambito delle politiche giovanili e culturali. Più in generale c’è stato un rapporto dialettico tra le due cose, non univoco, anche se esso non può certo spiegare da solo l’enigma della «primavera». Oggi si è davanti a un bivio e, per evitare che nei prossimi anni quanto di buono è stato seminato o creato o vi è nato spontaneamente possa andare disperso, occorrerà tenere a mente alcune cose.
La prima è che le primavere non sono eterne. Per evitare i grigi autunni e i rigidi inverni, bisognerebbe irrobustire gli spazi di autonomia e porsi — come dicevo — il problema della maturità. Dopo l’innegabile rottura, il decisivo primo passo, vanno create le condizioni perché i passi successivi, più complessi, non siano ostacolati.
La seconda è che la crisi economica che colpisce l’intero Mezzogiorno (come riportato ad esempio dagli ultimi due Rapporti dello Svimez) interessa anche la Puglia. Gli indici di disoccupazione giovanile e di desertificazione produttiva sono notevoli. Decine di migliaia di ragazzi vanno fuori in cerca di lavoro e non tornano più.
Dagli anni novanta in poi, spesso quando si è parlato dei Sud (al plurale) si è adottata la metafora della pelle di leopardo. Il Sud non è tutto uguale, si diceva: accanto al solito degrado, al solito sconquasso, vi sono aree di eccellenza, aree che si sottraggono al pantano. Molte di queste aree erano pugliesi. In parte lo sono ancora oggi; però andrebbe capito che, di fronte a una crisi dura come quella che si sta attraversando, le oasi si stanno indebolendo. In assenza di un progetto di lungo periodo (che dia sostegno, ad esempio, alle imprese innovative, ai distretti virtuosi), sono aggredite dall’avanzare del deserto.
Di questo sguardo di lungo periodo ha bisogno, ad esempio, anche la crisi pugliese più nota: quella della città di Taranto. Non è solo una crisi industrial- ambientale, quella jonica. È una crisi di sistema che affonda le sue radici nell’ultimo trentennio. In un celebre reportage apparso sul Corriere nel 1979, Walter Tobagi colse perfettamente i nodi irrisolti dello sviluppo industriale nel Sud, il rischio che le «cattedrali nel deserto» (dopo aver amalgamato una stramba classe operaia fatta di «metalmezzadri», in bilico tra città e campagna) potessero rimanere tali, anziché alimentare un indotto produttivo intorno a loro. Ancora oggi, il futuro di Taranto, altra faccia della medaglia rispetto alla Puglia adriatica, si gioca intorno a tale nodo irrisolto. Non basta garantire alla città una complicatissima via d’uscita dal disastro ambientale, che tenga insieme lavoro e salute. Occorre gettare le basi per una fuoriuscita da quella che in riva allo Jonio viene spesso additata come «monocultura siderurgica». Anche accanto a una fabbrica trasformata, occorre fare altro. Purtroppo gli enormi ritardi nel completamento dei lavori infrastrutturali del porto, le recenti crisi della Vestas (che produce turbine eoliche) e di Marcegaglia (che qui produce pannelli fotovoltaici), rivelano quanto tutto ciò sia complicato.
Ma la Puglia, non può certo essere ridotta alle evoluzioni o involuzioni delle sue due città più grandi. La sua peculiarità è nella complessità, nella poliedricità delle sue molte province, nella vitalità dei borghi di media grandezza. Il Salento, ad esempio, è entrato nel ventunesimo secolo puntando sul nesso turismo-cultura.
Non tutto è andato per il verso giusto. Come già lamentava la scrittrice Rina Durante negli anni novanta, la fisionomia di molti piccoli paesi è profondamente mutata, alcuni angoli di costa sono stati saccheggiati. Tuttavia, nel complesso, in Salento molto più che altrove, la bianca pietra di Puglia ha resistito eroicamente ai possibili assalti del brutto. A ogni angolo, specie seguendo gli itinerari meno battuti, è possibile imbattersi in quei segni della «antica armonia» di cui parlava Cesare Brandi. Anche qui, quando si è favorito il turismo senza cedere alla «monocultura turistica», invasiva quanto fragile, il territorio non è stato stravolto.
Non solo. Da Otranto ad Acaya a Melpignano a Carpino, così come da Conversano a Polignano a Mare, la Puglia è attraversata da intelligenti festival culturali, che non si limitano unicamente alla rilettura del proprio passato. Al contrario, hanno svolto e svolgono una costante opera di collegamento tra la Puglia e il resto d’Italia, la Puglia e l’Europa, la Puglia e l’altra sponda dell’Adriatico, molto più che nei decenni precedenti. Il riscatto pugliese è nato anche da qui. Ho sempre pensato che il rapporto con il passato, ad esempio con i canti e i balli generati dalla tradizione contadina, come la pizzica, debba essere liberato da una doppia tenaglia, un doppio rischio. Da una parte il rischio di esaltare acriticamente quella tradizione, scivolando in un passatismo nostalgico, privo di increspature. Dall’altra il rischio di edulcorare quella stessa tradizione, riducendola a una componente dell’eterno presente levantino, celando in realtà proprio il mondo che quella cultura ha prodotto.
Ogni tanto occorre spazzolare la storia contropelo. La più grande definizione dell’essenza pugliese l’ha data probabilmente Carmelo Bene, anche se — a dirla tutta — quando parlava di «sud del sud d’Italia» (la «sua» Mancha) intendeva più il Salento che l’intera Puglia. «Abbiamo avuto la Magna Grecia e l’Islam», diceva Bene. «È tutto un fatto speciale, un fatto a sé, una cultura-bordello con un cattolicesimo tollerante che poggia sul vuoto».
Quanto rimane di questo bordello tollerante che poggia sul vuoto? Quanto rimane della sua anima profonda, che per secoli ha impregnato le pietre delle chiese e dei palazzi, e finanche quelle dei muretti a secco che costeggiano i campi?
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