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Se la poesia della lingua materna diventa una battaglia politica

Pubblico questo articolo per chiarire come la penso.
Per il dialetto penso che non debba più essere un tabù nelle scuole. Non sono per l’abbandono dell’italiano a favore del dialetto, ma mi piacerebbe che nessun ragazzo venga più ripreso per essersi espresso in dialetto.
Per le tradizioni ritengo che sia opportuno che un insegnante conosca e diffonda le tradizioni del luogo in cui insegna.

Se la poesia della lingua materna diventa una battaglia politica

È apparso a tutti evidente che la polemica sul dialetto di queste ultime settimane non è dettata da questioni meramente linguistiche o culturali, ma da interessi politici contingenti e dal revisionismo storico nei confronti del Risorgimento. Tuttavia ritengo un grave errore sottovalutare l’ argomento o rubricarlo in un contesto di residuale arretratezza culturale. Pratico da sempre il dialetto della mia terra, ancora oggi per molti italiani è il vero "parlar materno": in gran parte del paeseè espressione identitaria e di appartenenza a un gruppo. I dialetti d’ Italia rappresentano un patrimonio di diversità di straordinario valore, non solo perché hanno mantenuto feconda la produzione poetica dei territori, ma perché, attraverso un complesso rapporto, hanno svolto, svolgono e svolgeranno un compito di arricchimento della lingua italiana. Proprio queste considerazioni impongono, per rendere il dialogo utile, di porre alcune discriminanti: l’ opportunità e non l’ obbligatorietà dello studio; il confronto e lo scambio come metodo per valorizzare l’ aspetto identitario; il privilegiare il fertile terreno dell’ oralità rispetto a rigide codificazioni. Sul primo punto penso che l’ obbligatorietà dello studio del dialetto rappresenti un metodo autoritario e controproducente nei risultati, riproponendo in senso contrario l’ imposizione dell’ italiano come lingua unificatrice. In fondo, se ci pensiamo, la diffusione dell’ italiano a livello di massa è avvenuta in gran parte con metodi impositivi: con la legge sull’ istruzione obbligatoria, con la leva militare obbligatoria dopo l’ Unità d’ Italia, con la prima grande guerra di massa (1915-‘ 18), con la persecuzione delle minoranze linguistiche nel periodo fascista e con la diffusione della televisione. Sul rapporto autoritario tra video e spettatore, Pasolini ha scritto pagine memorabili evidenziando, tra l’ altro, la differenza tra romanesco autentico dei ragazzi di borgata con l’ italiano romanizzato della televisione. Chi ha a cuore le sorti del dialetto non può adottare metodi coercitivi; se la Lega, nuovo partito del potere centrale dello Stato, sostiene l’ obbligatorietà scolastica del dialetto fa un’ inutile prova di forza. Il dialetto va promosso, sostenuto con cura e amorevolezza con quell’ atteggiamento pedagogico con il quale Antonio Gramsci, da un lato operava per l’ affermarsi di una lingua vivente e unitaria, concepita come fondamento di una moderna cultura popolare e nazionale, e dall’ altro rivendicava il pregio del dialetto come esperienza formativa e come fonte di irradiazione di innovazioni linguistiche. Proprio quest’ ultima considerazione ci apre verso un’ altra riflessione: il valore identitario espresso dalla propria Lingua Madre si afferma e si consolida attraverso lo scambio; non esiste identità senza scambio. Le lingue e i dialetti sono materia vivente in costante mutamento; incontri e scambi danno ricchezza e colore espressivo al linguaggio. Per questo motivo, proviamo piacere e curiosità nel sentire la forza emozionale di altri dialetti. Come non rimanere emotivamente coinvolti da tante belle canzoni napoletaneo dalla straordinaria Crêuza de mä di Fabrizio De André. Come non sentirci un po’ romagnoli guardando Amarcord o sentendo parlare Tonino Guerra. Nell’ insieme le identità locali, con le loro forme espressive, dal canto alla poesia, dalla saggezza dei proverbi alla straordinaria creatività dei tanti modi di dire, testimoniano la ricchezza della nostra comunità nazionale. Se si concorda su questo approccio è evidente che, prima o poi, al costante processo di rinnovamento linguistico contribuiranno anche le lingue degli immigrati, con lo stesso ruolo di "focolai di irradiazione" verso la lingua nazionale che hanno avuto i dialetti. Così va il mondoe qualsiasi forma di chiusura applicata alla dinamicità delle lingue e dei dialetti ha la stessa consistenza di un castello di sabbia modellato sul bagnasciuga. Del resto la voce "dialetto" è tratta dal greco "dialektos", che significa "conversazione, dialogo" e il dialogo tra le culture è la grande scommessa del secolo. L’ ultima questione riguarda la convinzione che l’ eccessiva codificazione del dialetto può diventare lesiva della sua principale forza che risiede nell’ oralità. Come la cavalleria leggera il dialetto si svincola da regole omogenee: in valli confinanti e in paesi a pochi chilometri di distanza mutano voci, significati e accenti. Il confronto evidenzia le differenze, educa all’ ascolto, favorisce il divertente sfottò tra i diversi campanili. Questaè la forza dell’ oralità che, grazie ai nuovi strumenti della filmografia, può essere raccolta, trasmessa e archiviata. È evidente che su queste tematiche il Partito Democratico e l’ opposizione in generale dovrebbero essere più combattivi e incisivi. Almeno rivendicare il lavoro che per molti anni è stato svolto sul fronte delle tradizioni popolari dai vari gruppi di canzonieri, dall’ Istituto Ernesto De Martino, dal lavoro di etnomusicologi come Diego Carpitella o Roberto Leydi. Niente di tutto ciò, si liquidano come belinate ("stupidaggini", dal ligure) le tesi linguistiche di Calderoli, pensando che l’ argomento non meriti approfondimento. C’ è da chiedersi se questa sinistra ha ciapà al pojan (locuzione lombarda: "non star bene", "avere la fiacca". Il senso primitivo di pojan era quello di "sonnolenza che prendeva i carbonai per esalazioni di acido carbonico"). Sarebbe invece utile e doveroso denunciare il metodo leghista di promuovere la secessione con la tattica del fari Cicciu mi tocca (locuzione calabrese: "si dice di chi ostenta di non volere una cosa che nella realtà non solo vuole, ma incoraggia perché si faccia"; locuzione nata dalla storiella della giovinetta che, fingendo di protestare, diceva alla mamma: Ma’ , Cicciu me tocca!, ma sottovoce spingeva il fidanzato a carezzarla sempre di più: Toccame Cicciu ). Nota anche a Trieste: Mama Toni me toca! – Toni no sta tocar la puta! – Toca, toca Toni!. E a Roma: A mà, Peppe me tocca – Toccame Pe’ !. Ah, la straordinaria efficacia del dialetto! – CARLO PETRINI

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