…Mentre prende forma la tradizione di domani.
“Contemporary folk art”, arte folk contemporanea; un’espressione che si comincia ad incontrare con una certa frequenza. Può definire una corrente artistica legata al popolare, o può indicare una moda, una “way of doing” radical chic… In ogni caso, costituisce l’occasione per alcune riflessioni, per chi si occupa di folk, non prive di una certa importanza.
di Gabriele Di Stefano
Tra tutte le Istituzioni, il Parlamento Europeo è certamente quella meno sclerotica; da sempre, si colloca all’avanguardia nel coniugare qualsiasi ambito della sapienza e delle attività umane con la lotta all’esclusione sociale e la promozione dell’integrazione europea.
In armonia con questa linea, mediante la Decisione n.58/2000/CE del 14 febbraio 2000, ed istituendo il Programma “Cultura 2000”, il Parlamento Europeo ha indicato la funzione delle “culture nazionali” in relazione alla “cultura comunitaria”.
Circa i particolari della Decisione, rimando al sito dell’Unione Europea – www.eu.int – chi ha la pazienza e la voglia di ricercare. Circa le linee generali, invece, ritengo sia opportuno mettere in evidenza alcuni aspetti fondamentali del documento, emblematici, a mio parere, di una politica culturale – e, imprescindibilmente, sociale – che, considerati i tempi che corrono, ha qualcosa di miracoloso.
Per cominciare, una attenta lettura del documento lascia intuire che la politica comunitaria non voglia tendere alla creazione o alla definizione di una “cultura europea”, bensì di una “cultura dell’Europa”. Può sembrare una questione di lana caprina, ma, credetemi, non lo è.
Se, infatti, raccogliamo tutte le “culture” dei paesi europei, abbiamo sostanzialmente due modi di utilizzarle.
Il primo è quello di infilarle tutte in un crogiolo, in percentuali differenti (di quelle che vogliamo “dominanti” ce ne metteremo di più…), riscaldarle e fonderle insieme grazie all’energia fornita da un manipolo di intellettuali opportunamente scelti ed istruiti, farne una lega e, colandola, ricoprire il continente. Un po’ come quanto è accaduto, nel nostro Paese, in seguito all'”imposizione” dell’italiano – lingua sostanzialmente “artificiale”, ma questo è un altro argomento, che pure prima o poi dovremo deciderci a trattare un po’ più approfonditamente -, la conseguente diffusione “imposta” di una siffatta cultura europea genererebbe esclusione, emarginazione, “drop out”. Cioè conseguirebbe i risultati esattamente opposti a quelli cui dovrebbe tendere la diffusione culturale.
Il secondo modo è quello di fascicolarle attentamente una per una, rilegarle in un bel librone, fotocopiarlo, e distribuirne una copia ad ogni cittadino europeo. Dicendogli, all’atto della consegna: “Tieni, questa è la cultura dell’Europa.”.
Mi potreste obiettare che ogni fascicolo “nazionale” custodito all’interno del librone costituirebbe la prova di un autentico delitto, perpetratosi, più o meno lontano nel tempo, in ogni Stato nazionale, ai danni delle culture “altre” del luogo. In tal caso, vi risponderei “Ma allora che ci state a fare, voi, signori che del folk avete fatto pane e missione?”. E vi (ci) chiederei di scrivere di quanto resta delle nostre culture “subalterne”, anche perché a sconfiggere il concetto di cultura “dominante” si fa un piacere alla “Cultura e basta”. Proporrei, infine, di pubblicare il tutto come complemento del librone di cui sopra.
Mi rendo conto che qui si aprirebbe, allora, un’altra questione. Ma come, “scrivere” gli oggetti popolari non equivale ad “ucciderli”? Credo di no, se si è bravi a limitarsi a raccontarli e a fornire indicazioni a chi voglia fruirne personalmente, piuttosto che irrigidirli in semplici canoni e stilemi. Il “rito”, la “liturgia”, senza la divinità, sono solo recite a memoria o forme di ginnastica…
Ora, pare proprio che, nonostante i venti gelidi di globalizzazione forzata che solcano, cupi, il mondo, la Commissione Europea, con la Decisione relativa a Cultura 2000, piuttosto che fare la colata, intenda muoversi in direzione del librone e dei suoi complementi.
Ammetterete che la faccenda riveste la sua importanza. E vi dirò di più. Aborrendo i concetti di “sistema recettivo”, “parco emozionale”, e altre amenità meramente commerciali, artificiali, virtuali del genere, la Commissione Europea ha istituito i “sistemi di accoglienza” quali unità elementari del sistema turistico comunitario. Cos’è un sistema di accoglienza? E’ un luogo “logico” in cui possa avvenire l’incontro tra la cultura di chi è ospitato (il turista) e chi ospita. A che serve? Serve a favorire l’integrazione europea.
La commozione, che mi coglie spontanea nel pensare agli intenti del Parlamento continentale, sparisce, e lascia il posto allo sbalordimento, quando penso che, conseguentemente, il Governo italiano (quello del centro-sinistra, all’epoca), ha immediatamente e completamente recepito il concetto, approvando la legge 135/2001 ed istituendo i sistemi turistici locali, traduzione nostrana di “sistema d’accoglienza”.
A buon intenditor…: in quanto a legittimazione, ce n’è d’avanzo per riscattare la “subalternità” dei nostri oggetti della tradizione, e limitare la differenza tra cultura “ufficiale” e “popolare” al solo fatto che la prima è scritta, mentre la seconda si trasmette agli eredi detentori mediante “tradizione orale” (generalizzando una definizione abbastanza accettata per la musica).
La legittimazione, però, non basta. Ad essa dovrebbe aggiungersi, ora, l’agire con purezza, solerzia ed intelligenza di chi studia o racconta gli oggetti popolari, sia allo scopo di sensibilizzare le Amministrazioni locali, sia per illuminare agli ospiti le strade che conducono a chi quegli oggetti li detiene, sia per consentire ai “viaggiatori”, agli “stranieri”, di raccontarsi, di dire la loro.
A questo punto avremmo quasi tutto: le direttive europee, le leggi nazionali… Poi, noi tutti europei abbiamo nel sangue la modalità conviviale (intorno al fuoco, ad un tavolo, ad una bottiglia…), che permette anche a chi non è “sacerdote” di raccontare, alla gente che lo ospita, i “riti” della sua Terra. Ma cosa racconterà? E cosa gli sarà mostrato da chi lo ospita? Quale sarà il contenuto della comunicazione? Chiaramente, la “contemporary folk art”, l’arte folk contemporanea. Ma per convenire su questa risposta ci serve un’altra piccola riflessione.
La “Tradizione” è un concetto caro sia al pensiero conservatore che progressista. Degli ambienti “di destra” si dice che “sono tradizionalisti”; d’altra parte, alla base della ricerca degli oggetti della tradizione popolare vi è stata l’esigenza di sconfiggerne la subalternità, di eliminare le “ragioni del rimorso”, di rendere protagonista l’emarginato, di riconoscere che le culture locali sono da sempre veicolo di protesta e di denuncia del disagio: esigenza chiaramente “di sinistra”.
La “destra” riconosce sovranità ad una tradizione nata in altri tempi, la idealizza ed istituzionalizza, e poi tende ad incarnarla, a viverla. La “sinistra” individua la tradizione nei modi di vivere che incontra, quando ricerca, tra coloro che non vogliono saperne di abbandonarli.
In entrambi i casi, la tradizione è vista “come modo di vivere”; in entrambi i casi, chi vive i suoi oggetti lo fa in maniera certamente differente, rispetto a quanto facevano coloro che li “inventarono”. Differenze dovute a ragioni ideologiche o esoteriche, a sincretismi, “errori di trasmissione”, contaminazioni spaziali e temporali… Insomma, è evidente che, in un modo o nell’altro, siamo noi a modificare gli oggetti culturali che abbiamo ereditato, e ad assemblarli nella “tradizione”. E siamo sempre noi che, acquisendo o negando in tutto o in parte l’insieme assemblato (dal quale è impossibile prescindere), ed aggiungendovi i nostri “elementi”, creiamo il folk dei nostri posteri (dei quali, del resto, siamo gli antenati).
Ritengo, di conseguenza, anzitutto che il ricercare tra le tradizioni popolari, o il farlo tra le attività artistiche “di massa e di base” contemporanee, emergenti, “innovative”, siano due operazioni sostanzialmente analoghe. Sfido chiunque a non individuare, nelle rappresentazioni folk, contaminazioni con “maniere” contemporanee, e, viceversa, nell’arte di strada, dei murales et similia, oggetti di chiara provenienza tradizionale.
Ricordo, ancora, che più volte si è sostenuto che il folk, se non vuole scadere nell’oleografia, deve conservare la sua dimensione di rito. Ma il rito non rappresentato bensì celebrato, risulta inevitabilmente deformato da chi lo celebra. Nella raccolta dei sonetti dei Cantori di Carpino, ad esempio, si trova una versione dell’”ancestrale” “’E spingule francesi”, ma ritroviamo anche storie quotidiane, o pezzetti biografici riferiti agli stessi autori: i Cantori non hanno mai smesso di scrivere sonetti. Matteo Salvatore racconta la sua esperienza, la povertà quotidiana che ha fatto compagnia giorno per giorno alla sua vita; quindi, in ogni momento, ha parlato di un “presente” – il suo – non di un passato.
Sono tantissimi gli esempi che permettono di individuare la “contemporaneità evolutiva” del folk; la caratteristica, cioè, che rende il folk “contemporary art” di ogni tempo. E sono tanti gli elementi che permettono di individuare un’altra caratteristica della tradizione: essa “nasce” grazie ad una “proprietà dinamica degli oggetti culturali”, e muore in seguito ad una malattia che potremmo definire “istituzionalizzazione”.
In una cultura giovane accade che ogni nuovo uso, costume, rito, o oggetto culturale in genere in grado di permanere, nel tempo, nella memoria della collettività, va ad aggiungersi ad un patrimonio omogeneo già esistente, arricchendolo. Per un certo periodo della propria vita, così, la tradizione di un luogo è un insieme di elementi che, epoca per epoca, hanno tanto interessato le persone del passato da venire trasmesso a quelle del futuro; formandosi mediante l’aggregazione di nuovi elementi “interessanti”, o l’eliminazione di elementi non più ritenuti tali, la tradizione è poi una realtà dinamicà ed in continua evoluzione.
Ad un certo punto, per svariate ragioni, la tradizione finisce per perdere il proprio dinamismo, e diviene “istituzione”; subisce, cioè, una cristallizzazione che fa perdere di vista il filo continuo (di conseguenzialità causa – effetto) che lega la cultura contemporanea di una collettività con il suo passato. Si determina, così, una soluzione di continuità tra passato e presente – e conseguentemente futuro – i cui effetti sono culturalmente, socialmente ed economicamente nocivi, e si condensano nelle tendenze più estreme – e spesso del tutto prive di fondamenti e ragioni – di “conservazione” o “modernismo” ad oltranza.
In seguito all’istituzionalizzazione accade che alcuni, negando la tradizione, la dimenticano e la perdono, smarrendo con essa ogni ricchezza “ereditaria”; altri, proponendo la tradizione quale unico serbatoio di risposte, ipotizzano l’impiego di soluzioni di altri tempi a problemi nati o sussistenti nella realtà di oggi, caratterizzata da una velocità di variazione senza eguali in passato. Il più delle volte, così, la triste sorte della tradizione è quella di essere dimenticata, arrestata, misconosciuta, ingiuriata; nella migliore delle ipotesi, male utilizzata.
Avendo già una certa percezione di queste dinamiche, nel 1999 decisi di tentare un esperimento, a mio parere riuscito, di cui proprio la città di Carpino costituì la prestigiosa sede.
Nell’estate del 1999, attratti dal locale Folk Festival, Roberto Iannuzzi ed io ci recammo a Carpino, città il cui valore culturale ci era noto dall’aver ascoltato i suoi Cantori in tanti concerti del nostro illustre concittadino Eugenio Bennato. Con Roberto, del resto, avevamo anche intenzione di trascorrere sul Gargano le vacanze estive: al mattino Rodi, sole e mare, e alla sera Carpino, fresco e musica popolare. Il periodo di vacanza si trasformò ben presto in ricerca fruttuosa di storie e leggende, musiche e luoghi.
La prima sera di Festival conoscemmo i ragazzi della Pro Loco di Carpino; loro ci accolsero in paese, e con loro abbiamo vissuto il tempo e i luoghi (e i cibi, il vino et similia) di Carpino e del Gargano.
“Zio” Antonio Piccininno, dei Cantori di Carpino, che canta – e così conserva – la muntanara, la viestesana e la rurjanella, (che sono forme compositive del grande insieme “Tarantella del Gargano”) ci raccontò della “sua” tarantella (che ormai gira il mondo), e ci diede l’onore – a noi, profani stranieri – di farci suonare e cantare con lui.
Ascoltammo dalla gente i racconti della tradizione, fatta di riti che, pur risalendo all’inizio del XX secolo nella forma che ci veniva descritta, denunciavano origini remote, lasciando intravedere ombre italiche preesistenti i Greci. Ci rendemmo conto che racconti simili li avremmo potuti ascoltare anche a Monte S.Angelo, o in tutto il Gargano, o forse in tutta la Puglia. In questo senso, Carpino mostrò il proprio aspetto di “operazione di marketing”, innescata e poi utilizzata da tanti “nomi famosi” del folk e dintorni. Ma ormai eravamo lì, e così decidemmo di accettare la sfida ad evocare altri oggetti che i “professoroni”, evidentemente interessati al solo “immediatamente commerciabile”, se pure consapevoli della loro esistenza, avevano completamente omesso di diffondere.
Tra questi oggetti emerse immediatamente il Carnevale.
Pare che il Carnevale “venisse portato” da compagnie di artisti di strada provenienti – ci dissero – da Napoli; io ritengo che che queste provenissero dall’agro nocerino-sarnese, perché portavano la “tammurriata” (faccia campana della medaglia la cui faccia pugliese è la tarantella), rito rurale mai davvero appartenuto al capolugo campano, da sempre “metropoli”. Di strettamente partenopeo, forse, portarono la storia o canzone di “Pulc’nell'” (maschera che, in verità, colloca la propria origine preromana ad Acerra, e non a Napoli, forse all’epoca neanche edificata), che inizia in napoletano e prosegue in dialetto carpinese..
Carpino non si faceva trovare impreparata; montava una scenografia in ogni quartiere, in cui un vecchio “Carnevale” di paglia aspettava la sua morte, seduto ad una mensa, il “buffettuolo”; sul tavolo, vino, fave, olive, pane, ed altro da mangiare, di cui i passanti si servivano.
Allo scopo di morire in modo credibile – e scenograficamente grazioso -, Carnevale nascondeva nel suo petto una boccia di vino; così poteva versare sangue alla sua trafittura, la sera del martedì grasso. Altre sorti che gli toccavano potevano essere il finire bruciato, o gettato nel fosso di raccolta del letame. O tutto questo insieme. Bel ringraziamento a chi, con occhi fissi ed immobile pazienza, ascoltava gli “stramuorti”, pettegolezzi, lagnanze o maledizioni, a lui rivolte dalle persone del quartiere, ma indirizzate ai vicini.
Carnevale aveva anche una moglie, naturalmente di paglia anche lei, dentro il cui tronco era sapientemente collocato un ceppo di legno; così, sempre il martedì grasso, poteva essere segata mantenendo una certa consistenza e, perché no, dignità; poi via, a seguire le sorti del marito.
La cantilena sui mesi dell’anno (che ritroviamo, guarda un po’, analoga nella fascia del Monte Somma/Vesuvio), i gruppi di persone in maschera che visitavano le case, di sera, e non potevano restare inospitati; il ballo: tarantella e tammurriata a scontrarsi, incontrarsi, contaminarsi; attori, giocolieri, mostri e bellezze… Attrici le compagnie; regista ed attrice la gente di Carpino, a riprova che la festa è spettacolo interattivo. Questo ed altro i ragazzi, gli uomini e le donne, gli anziani di Carpino ci raccontarono.
Fu in seguito a tanta mole di dati e sollecitazioni che, ad un certo punto, dissi: “-Robè, e se si mettesse in scena Carpino, magari a Carnevale? -“. Lui rispose: “-Grande!!”-.
Parlammo dell’idea con i ragazzi della Pro Loco, e chiedemmo loro se gli andava di cominciare a sobbarcarsi l’onere di una ricerca – quanto più sistematica possibile – di tutto ciò che appartiene alla tradizione; in caso di quantità significativa di ritrovamenti, avremmo proposto l’idea alle Autorità competenti. Cominciammo a lavorare insieme, fin quando non venne il giorno del nostro rientro a Napoli.
In ottobre, Roberto ed io tornammo a Carpino; quello che i ragazzi della Pro Loco avevano già ritrovato era tanto, bello, ed interessante: musica, filastrocche, storie per tante messinscene…; c’era di tutto.
Nell’atmosfera più serena e tersa di ottobre, Carpino si mostrò come “coesistenza di possessi e perdite di passato”. E’ vero che ogni luogo ha questa caratteristica, e meriterebbe attenzione, cura ed affetto per il suo passato ed il suo presente; spero che Carpino abbia finalmente risolto questo bisogno.
Ad ottobre conoscemmo (e suonammo, bevemmo, recitammo con) i ragazzi dei gruppi musicali del luogo che, giovanissimi, hanno due musiche: quella della tradizione, e la stessa, rivisitata, contaminata, riproposta da loro che ne sono i legittimi eredi. Ad ottobre “Zio Antonio” ci raccontò ancora di sé, di Carpino, del Gargano e della sua musica.
Ai Cantori l’idea di Carnevale piacque. Piacque anche ai giovani dei gruppi locali, e ad ottobre i ragazzi della Pro Loco erano quasi già pronti. L’Amministrazione Comunale era pronta a legittimare (e legittimò) mediante delibera tutta l’operazione e, soprattutto, le Scuole locali si mobilitarono nella ricerca di altri oggetti tadizionali. Carpino si avviava ad essere pronta.
A quel punto mancava un “progetto artistico” di liberazione e riappropriamento della tradizione da parte dei Carpinesi; e mancavano le “compagnie”, gli esterni.
Roberto ed io eravamo i primi “artisti” provenienti da fuori. Ma fondamentali si rivelarono i contributi eroici del collega – e amico – Ciro Pellegrino, regista napoletano, dei Rua Port’Alba, di Raffaele Inserra e della Paranza dei Monti Lattari che, a fronte di un ben magro rimborso spese – pena l’infattibilità economica dell’esperimento – vennero a Carpino nei giorni del Carnevale, e improvvisarono insieme a noi pomeriggi e sere di spettacolo in pieno “spirito medioevale”.
Difatti, nel frattempo avevo trovato un percorso artistico “sostenibile”, cioè tale da modificare il meno possibile lo spirito del Carnevale, e quindi la sua trasmissione nel futuro dopo una pausa di circa venticinque anni (da tanto, infatti, i Carpinesi non celebravano più coralmente questo rito).
Ragionai così. Lo spettacolo medioevale era interattivo, ed era legato alla festa; l’interazione, in teatro, può funzionare grazie all’improvvisazione, e quindi grazie, per esempio, al metodo Stanislawskij; le tradizioni di Carpino, legate o meno al Carnevale, sono quanto meno di origine medioevale. Visto e considerato questo (ed altro, di cui poi si dovrebbe parlare con calma), proposi di fare l’esperimento utilizzando gli artisti del luogo (i Cantori, i gruppi locali, i ragazzi delle scuole, e quanti avevano ricercato) e quelli “che venivano da fuori”, dando alla gente la possibilità di organizzare e curare il Carnevale del proprio quartiere, dando al pubblico (carpinese, garganese, pugliese e italiano) presente la possibilità di rivivere il proprio diritto atavico di intervenire decisamente sullo spettacolo.
Il Carnevale poteva essere ricordato come evento di inizio secolo (il XXI, in quanto si sarebbe celebrato nel 2000). Poteva entrare nella tradizione e rimetterla in moto. Poteva far sorgere la voglia di riuscire a mantenere dinamica la tradizione riavviata, perché non si fermasse di nuovo.
Il Carnevale del 2000 si tenne, con spettacolo interattivo dal giovedì al martedì grasso, e l’esperimento riuscì. La Comunità di Carpino – tutta – recuperò la consapevolezza del suo serbatoio di risorse ereditario; la dinamica di formazione della tradizione si riavviò (ho notizia del Carnevale del 2001, che, ritengo, si sia discostato dal precedente, si sia evoluto; probabilmente, si sarà anche tenuta l’edizione del 2002).
Il Carnevale di Carpino del 2000 fu “contemporary folk art”. Un’immagine che non dimenticherò mai è quella del viso di una donna, ospite del locale centro di accoglienza, che, in piazza, leggeva la storia del Carnevale pensata e scritta da lei insieme ai suoi “esclusi” compagni.
La domenica successiva al martedì grasso del 2000, Roberto ed io eravamo a Montemarano ad assistere ad un altro Carnevale, che ritenevamo “istituzionale”; ci rendemmo però subito conto che eravamo di fronte ad una realtà in piena evoluzione, della quale alcuni aspetti ci inquietarono non poco. “Sua maestà” la Montemaranese, piuttosto che governare la festa ed ospitare la presenza garbata di altri generi, era evidentemente soffocata dalla proposta invadente e poco educata di generi quali la tammurriata o la pizzica, “forti” in quanto ormai divenuti, in tutto il nostro sud, la proposta commerciale di sedicenti artisti – alcuni anche molto famosi – dallo stage/”progetto culturale” facile e dal disco pronto.
La Montemaranese, e chi si occupa della sua proposta e diffusione, sono invece soggetti “deboli” ed ignorati da chi detiene il “potere di pubblicazione”, e sfrutta il revival solo come periodo “di grande spolvero” di oggetti riproposti in maniera digeribile al pubblico più superficiale. Ma Montemarano merita spazio autonomo.
Per concludere, vorrei farvi raccontare dall’amico Marco Molino, giornalista de “Il denaro” di Napoli, e collega nelle avventure professionali di sviluppo locale, un caso urbano di arte folk contemporanea, riportato nel suo articolo: “Arti & Cultura, incontri sotto l’albero. Dodicimila spettatori nelle prime due serate. Le tradizioni di Posillipo rivivono nella magia del presepe vivente.”, pubblicato il 29 dicembre 2001.
“Riceve sempre nuovi consensi il presepe vivente che si anima tra i vicoli del Casale, a Posillipo, nella notte di Santo Stefano, ormai da quattro anni. Per questa edizione anche il Comune di Napoli e la Regione hanno assicurato il loro sostegno allo sforzo organizzativo del comitato promotore, che opera in stretta collaborazione con la parrocchia di Santo Strato di padre Gian Pietro Camotti, per un evento che coinvolge un’intera comunità per diversi mesi prima di Natale. Circa duecento comparse, quasi tutti abitanti della zona, edifici e strade trasformati in set cinematografici, una vasta area liberata dalle auto. Senza la partecipazione attiva e convinta della popolazione, risulterebbe impossibile mettere su uno spettacolo che in due sere ha fatto registrare circa dodicimila visitatori. Il pubblico, diviso in piccoli gruppi guidati da un estroso Pulcinella, intraprende un affascinante viaggio nel tempo che, grazie a un’accurata scenografia e giochi di luci, per mezz’ora lo fa vagare in una dimensione sospesa nella quale diviene normale imbattersi, lungo la via, in un minaccioso centurione, o cedere il passo a una pecorella smarrita. Il presepe è suddiviso in otto quadri, posti su un percorso che si snoda tra vicoletti e cortili, e che si animano all’approssimarsi di ogni gruppo, rendendo l’atmosfera presepiale con scene di vita quotidiana, canti e balli caratteristici. Fino all’ultimo quadro dove, davanti a una povera capanna, in un clima di rispettoso silenzio, si assiste alla nascita di Gesù bambino. «È un appuntamento che diviene momento di aggregazione – sottolinea Marcello Matrusciano, consigliere circoscrizionale e membro del comitato presieduto da Anna Luongo – e che dà modo al popolo di questo quartiere nel quartiere di riscattarsi da negativi luoghi comuni che in passato ne hanno messo in ombra la maturità civica».”
Quanti altri esempi di arte folk contemporanea che chiedono diritto di parola, sapremmo individuare, nei nostri luoghi? Ne abbiamo facoltà, e possiamo provare a reperire i mezzi per farlo. Soprattutto, individuandoli, reperiremmo risorse endogene e rinnovabili per eccellenza, immediatamente spendibili nella diffusione dell’identità e nello sviluppo dei luoghi stessi.
http://www.facebook.com/notes/gabriele-di-stefano/contemporary-folk-art/10151344590608731
Negli stessi giorni alcuni racconti.
Grazia Martino: Il carro con le palma ha alla guida un pupazzo e improvvisamente mi è tornata in mente la filastrocca carpinese: “Carnuval mpuss all’oghj c’è magnat pane e (oghj?) non m’ha vulut da na zich che ti vonn stuccà nu dit” penso sia giusta.
Pietro Menonna: Ji’ so nat la nott d la pignat…Negli anni 50,la maschera piu famosa di Carpino era mio fratello…Pasqual Sandaloj…Ricordo da bambino come lui si preparava e scriveva le sue prediche,aiutato da mio padre…Ricordo vagamente che una volta c’era uno vestito da sposa e quello che portava il velo era uno bassotto…Mio fratello vestito da vedova,faceva la sua predica e dopo tirava fuori quello che portava il velo ( Savin sd’rlazz )e diceva…Mo v’apprsent nu giuvnott javt quand nu varlott…La gente si faceva addosso dal ridere.
Dante Di Giacomo: …nell ‘infanzia ricordo nella strada( via madonna) dove abitavo..in mezzo la strada sotto l’arco a fianco la casa di ”capiton” si faceva il famoso carnevale di paglia..seduto su una vecchia sedia lo chiamavano ”lu paprascian”, che poi in tarda serata veniva bruciato..
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