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ANNI ’90, gocce di splendore [musicale ndr]

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di Giovanni Vacca

 

La nostalgia non è il parametro migliore per giudicare i fatti della vita, specialmente in musica, l’arte più capace di fissare i ricordi associandoli ad essa.

Evitando dunque la trappola della nostalgia si può però ricordare, e cercare una spiegazione, quando si è avuta la fortuna di vivere una stagione particolarmente felice sotto il profilo creativo per vederla poi inevitabilmente finire.[….]

Gli anni ’80 avevano segnato in Italia la fine della canzone politica e della riscoperta della musica popolare:il riflusso, l’elettronica, il postmoderno, sembravano aver innescato una tendenza irreversibile. I primi anni ’90 invertirono questo percorso: il crollo dei paesi socialisti, la prima guerra del golfo, la costituzione di organismi di controllo sovranazionale e i primordi di Internet avviarono quella globalizzazione che altro non fu che un meccanismo di più stretta integrazione dei mercati e di simultaneità degli eventi che riunì in un rinnovato “villaggio globale”, e nel segno del dominio americano, un pianeta che aveva vissuto per 50 anni in blocchi contrapposti. Non furono poche le reazioni di spaesamento e di ruvida ridefinizione identitaria, ma ci fu anche un’entusiasmante crescita di velocità nella circolazione del flusso delle informazioni, delle immagini, dei suoni.

La rivoluzione musicale italiana partì da quei centri sociali occupati autogestiti (csoa) tuttora attivi ma che all’epoca ebbero un vero e proprio boom […]

Il modello furono le posse del rap, del dub e del raggamuffin e i suoni non più quelli del rock o quelli dei folk singer ma quelli dei generi periferici, le musiche e i balli dei ghetti neri americani, delle comunità giamaicane dell’Inghilterra con i loro sound system e, miracolo, delle tradizioni popolari italiane, riportate a un insperato secondo revival. Il fenomeno partì in contemporanea da varie città e un elemento caratteristico ne fu la riscoperta dei dialetti, prima poco diffusi (a parte la scena napoletana). Il dialetto simboleggiava, da un lato, una reazione alla temuta omologazione che la globalizzazione avrebbe potuto portare, dall’altro l’emergere di una sensibilità neocomunitaria, che assumeva di nuovo le “radici” folkloriche non come alternativa ma come complemento ai nuovi mezzi elettronici […]

Da quell’onda lunga sarebbe poi discesa l’attenzione verso anziani esecutori di musica tradizionale, con il rilancio di figure storiche della canzone popolare pugliese (Matteo Salvatore, Uccio Aloisi, Andrea Sacco) che all’improvviso si ritrovarono a suonare in concerti pieni di giovani, come era accaduto ai vecchi bluesman americani al festival di Newport negli anni ’60. Tutto ciò cambiò improvvisamente molte cose: vedere i concerti dei gruppi di maggior successo costava cinquemila lire ( in confronto alle improponibili cifre che venivano richieste negli stadi per assistere alle esibizioni di divi della canzone e del rock lontani ed inavvicinabili), mentre la televisione e la stampa cominciarono a dedicare spazi sempre più ampi al nuovo trend. […]

 

liberamente trascritto da Rocco D’Antuono

fonte "Alias" N.47 – 28 Nov 2009

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