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Gargano: al di là del proprio spirito d’avventura e di scoperta

Il miracolo del Gargano
EPOCA di Alfonso Gatto e di Paul M. Pietzsch, 23.12.1950A San Severo il mare non si sente, è lontano, una continuazione della pianura, senza stacco e senza rumore. Eppure, salendo da Foggia, per la strada tracciata ancor più nella sua solitudine e nella sua dirittura dalla luce agra di quel giorno senza sole, il Gargano già appariva azzurro, freddo, di un’altezza intensa. «Un’altezza intensa», proprio ci dicevamo per significare che il Gargano soltanto montagna non era, e cielo nemmeno, e mare non più, ma l’idea di un mondo, un’isola forse. Poi, dopo Apricena, sulla strada di Lesina, quasi per contrasto, sentimmo che la strada si assottigliava, ed eravamo noi a passare quella soglia sensibile che la pianura porgeva già alla montagna. Dietro l’automobile lasciavamo la polvere, una piccola diligenza a un cavallo e poi il silenzio, quel silenzio che precede e quasi annunzia la pioggia.
Cominciò a piovere. Una dolcissima pioggia d’estate, quale solo la laguna può attendere. Lesina è un paese di piccole case, d’una fontana sotto la pioggia e tanti ombrelli d’uomini e donne che fanno la fila sotto l’acqua per attingere acqua. Lesina è una spiaggia fredda e ventilata di barche nere, d’uomini controluce e la distesa rabbrividita del lago salato s’appiglia ai bastoncelli di canne prima di finire insabbiata dall’orlo della sua sponda silente. Le case erano bianche e l’una nell’altra bisognose dell’unto della vita per non dirsi soltanto calcinate dalla disinfestazione: i panni di colore stesi ad asciugare e trasparenti di pioggia, per quei forti celesti, per quei rosa da sorbetto, davano in piena afa un brusco senso di freddo. Avevano acceso un fuoco di legna sotto la caldaia del bucato e i bambini, come sempre, s’affaccendavano interno, davanti a gridi e a salti il loro saluto al crepuscolo. Eravamo nel Gargano, dovevamo dircelo, ove è raro si giunga per rimanerci o in cerca di fortuna, sibbene per piccoli commerci o per incetta di legna e di pesce. Gli stessi pugliesi che arrivano a Manfredonia e si spingono in pellegrinaggio sino a Monte S. Angelo o a San Giovanni Rotondo credono di essere andati al di là del proprio spirito d’avventura e di scoperta: i militari e gli inquisitori della finanza o della polizia, sempre a mezzo fra il fastidio da dare o da ricevere, ne sanno di più, ma per Rodi, per Peschici o per Vieste, che hanno nomi di frutta e di fiori, non benediranno mai il giorno che li ha portati a vivere laggiù. Lasciamo ormai Lesina e dall’alto, tra le brume del primo crepuscolo, rivedevamo la laguna con gli esili banchi di terra prima del mare, col suo crespo d’argento. S’apriva allo sguardo già l’altra conca di Varano, impressionata di silenzio come un quadro di Cézanne e noi entravamo in un paesaggio forte che non aveva altro aiuto che la propria fermezza nello spazio. Gli abitanti lo spalleggiavano, sicuri tra loro d’esistere, d’occupare tutta la via per camminare al braccio in catena, come deportati o come coristi, quasi a rintuzzare sin dall’inizio ogni forma di nostalgia che potesse portarli ad altri orizzonti o ogni tentativo di compromesso verso il forestiero, così simile alla pietà. Erano « indigeni » veramente quegli uomini e quelle donne, quali raramente è dato di vedere. Nulla avevano da dare alla curiosità degli altri. La sera era fresca, le nuvole erano rimaste sulla laguna e dopo Cagnano la montagna si copriva di boschi, d’alberi, di giardini, sotto il cielo staccato dall’altro cielo che avevamo appena fuggito e messosi finalmente a far da cupola all’ « isola » del Gargano, ad avvicinarle le prime stelle e l’azzurro rigoglio della sua volta, ad accogliere i sospiri delle famiglie affacciate ai balconi di Rodi. Tutto era così fresco, più chiaro di un chiaro paese del Sud, caricato dalla nostalgia del vespero e sospeso alle blandizie della luminosa notte terrena.
Il giorno di lavoro, per tanti segni del ritorno, d’uomini avviati finalmente a casa o già seduti in manica di camicia sul parapetto della piazza, era finito, ma la luce durava e lungo la spiaggia di San Menaio, tra la pineta e il mare, affacciate alle piccole case tra gli alberi, le famiglie rispondevano ai ragazzi già sulla strada con un piede sulla bicicletta. L’unico binario che corre a Nord il Gargano da San Severo a Peschici, comparendo e scomparendo dai tunnel, ora, dopo Rodi, correva parallelo alla strada e al mare celeste, alla spiaggia intatta. Dell’unico albergo color mattone non restavano che le grandi lettere dell’antica insegna: anche a non leggere la nuova targa, si capiva che lì c’era una colonia e che i bambini avevano preso d’assalto la villa una volta aperta ai forestieri che non sono mai venuti. Eppure, pensavamo, dove trovare un’aria così benigna, un cielo così propizio? Ma in quel paradiso non si poteva dormire, in quella notte accogliente non c’era un letto. Ci indicarono una pensione nascosta tra i pini, ma, giunti che fummo a un piccolo belvedere, non trovammo che una casetta quasi chiusa e una donna bellissima che agucchiava sotto una pergola. Rispose e non rispose alla nostra domanda, non alzò mai gli occhi, già ai primi di luglio ci diceva che « non era ancora la stagione ». Evidentemente, per inaugurare così tardi l’estate, quella Venere pigra non si aspettava altri forestieri che dei dintorni. In cuor suo forse n’era contenta. Nel paese dei miracoli gli abitanti si tengono stretti alla consegna del calendario, temono i sogni e i presentimenti più del diavolo. Quella donna bellissima col suo sorriso indefinito, in quella sera che colmava il cuore di freschezza e di confidenza, rimaneva impassibile. La sua bellezza le bastava. Ingrandiva quasi al nostro sguardo ed era forse il simbolo stesso del Gargano, più remoto e più vergine di un’isola del Pacifico, inattaccabile dalla curiosità e dalla frenesia degli scopritori, inospite e alto come un luogo stesso del cielo. Bianco e azzurro, del colore di seta che veste le vergini, quell’isola di miracolo è ancora l’idea di un mondo. La sua implacabile luce, gli abitanti anneriti contro i lenzuoli sventolanti delle proprie case a specchio del mare, le montagne deserte e le strade sassose, ripide e attorte per raggiungere santuari e profeti, lasciano il senso d’una leggerezza ultima in cui brucia anche il cielo. Resta un’attesa eterna in cui s’odono i passi di Dio che cammina a piedi, fermandosi qualche volta per bere, come tutti gli uomini alla fontana della sua sete.

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