Nei mesi scorsi ho postato un commento in cui esprimevo preoccupazione in merito all’imposizione del federalismo alle regioni del sud e sostenevo l’urgenza di prendere posizione prima di arrivare a considerare i meridionali ribelli dei delinquenti da internare.
In questi giorni la gazzetta del mezzogiorno sta pubblicano articoli che richiamano le preoccupazioni che manifestavo.
Ve ne propongo alcuni.
«I ribelli del Mezzogiorno deportiamoli a Timor Est»
Dai documenti diplomatici dell’epoca altre drammatiche conferme
MARISA INGROSSO
• BARI. La notizia (pubblicata dalla Gazzetta) che, per sconfiggere il Brigantaggio, la neonata Italia ha tentato di disfarsi dei Meridionali anti piemontesi deportandoli in una «Guantanamo» lontana mille miglia dal Belpaese, ha destato scalpore. Decine di e-mail sono arrivate in redazione. Molte sono di cittadini sgomenti: ignoravano questa parte di Storia, della «loro» Storia.
Ma i documenti diplomatici conservati presso l’Archivio storico della Farnesina offrono nuove sorprese. Infatti, da un dispaccio emerge che, manco un anno dopo l’Uni – tà d’Italia, il nuovo regime stava già tentando di spedire all’estero i «ribelli» del Mezzogiorno. Si tratta di un documento datato 17 novembre 1862. Lo firma il ministro a Lisbona, della Minerva, e il destinatario è il ministro degli Esteri, Giacomo Dur ando (che era di Mondovì, in provincia di Como). Della Minerva “stoppa” i Piemontesi e li avvisa che il loro piano è stato scoperto e reso pubblico da alcuni (non meglio identificati) giornalisti.
Il messaggio, tradotto dall’originale che è in francese, fa esplicito riferimento al fatto che il carteggio contenente le trattative tra Italia e Portogallo «per la cessione di isole nell’Oceano, allo scopo di relegarci i briganti» è stato pubblicato. Durando deve quindi sapere che la pressione esercitata da un’«opinione pubblica» sdegnata, ha costretto le autorità portoghesi a smentire ogni cosa.
«Io penso che, per il momento – conclude Della Minerva – è meglio sospendere» ogni iniziativa e tentare di portarla a termine «con successo» in un «secondo momento».
Quindi alle «mete» di deportazione già riportate dalla Gazzetta (ovvero il
Borneo, un’Isola dello Yemen, un tratto desertico tra Argentina e Patagonia, un pezzetto di Tunisia), bisogna aggiungerne di nuove. Ma in quale colonia oceanica del Portogallo, l’Italia neonata voleva spedire i meridionali anti Savoia?
Venirne a capo non è semplice. I portoghesi, infatti, furono tra i più attivi (e longevi) colonialisti. Già nel XVI secolo erano i numeri uno.
Prendendo a riferimento il documento odierno, possiamo certamente escludere che si tratti di terre dell’Oceano Indiano (colonie già tutte perse al 1862). Spulciando, invece, i possedimenti portoghesi nell’Oceano Atlantico, troviamo: Capo Verde (che è stata colonia della corona fino al 1951); Le Azzorre che erano distretto d’oltremare tra il 1831 e il 1979), così come Madeira (1834-1978); sennò c’erano São Tomé e Príncipe (colonia della corona dal 1753 al 1951) e che oggi è un piccolo Stato dell’Africa centro-occidentale, composto da due isole del golfo di Guinea, a oltre 200 km dalla costa nord-occidentale del Gabon.
Nell’Oceano Pacifico, infine, il Portogallo ha avuto una miriade di territori in India, ma anche Indonesia. Per cui forse l’Italia dei Piemontesi voleva mandare i Meridionali in quella che allora si chiamava Timor-Leste (oggi VA R I E
Timor Est), colonia subordinata alla così detta «India Portoghese» (1642-1844). O forse il loro piano diabolico aveva nel mirino Macao che è stato provincia d’oltremare tra il 1844 e il 1883 e, comunque, colonia portoghese fino al 20 dicembre 1999 (oggi è regione sotto amministrazione della Repubblica Popolare Cinese).
Quale che fosse la meta ultima, è certo che – anche grazie alla stampa dell’epoca – il piano naufragò. Per i successivi dieci anni, però, i Piemontesi continuarono a far pressioni sulle
diplomazie internazionali. A tale riguardo, vale la pena di ricordare cosa disse il ministro degli Esteri, Emilio Visconti Venosta (milanese e mazziniano), al ministro d’Inghilterra Sir Bartle Frer e, nel loro incontro del 19 dicembre 1872: «Se ci ponessimo in Italia ad applicare la pena di morte con un’implacabile frequenza, se ad ogni istante si alzasse il patibolo, l’opinione e i costumi in Italia vi ripugnerebbero, i giurati stessi finirebbero o per assolvere, o per ammettere in ogni caso le circostanze atte nuanti».
«Bisogna dunque pensare – disse il ministro della neonata Italia – ad aggiungere alla pena di morte un’altra pena, quella della deportazione, tanto più che presso le nostre impressionabili popolazioni del Mezzogiorno la pena della deportazione colpisce più le fantasie e atterrisce più della stessa pena di morte. I briganti, per esempio, che sono atterriti all’idea di andar a finire i loro giorni in paesi lontani, ed ignoti, vanno col più grande stoicismo incontro al patibolo».
Merita d’esser sottolineato che le «popolazioni del Mezzodì» che Venosta voleva terrorizzare erano italiani. Italiani a tutti gli effetti, da 11 anni.
Il lager Fenestrelle fortezza della morte
Migliaia di meridionali internati al Nord dai Savoia
Mrs.Ing.
• Nell’impossibilità di rinchiudere i ribelli Meridionali in una Guantanomo lontana, i Piemontesi trovarono una «valida» alternativa: i lager. «Nell’ar – chivio dello Stato maggiore dell’Eser – cito ci sono le prove che, tra il 1861 e il 1870, 30mila giovani meridionali, tutti soldati del Regno delle Due Sicilie, furono deportati in due lager piemontesi». Ad affermarlo è Fulvio Izzo, storico e vice direttore generale dell’ufficio scolastico regionale delle Marche.
Lo studioso si riferisce al carcere di Fenestrelle e al «campo di concentramento» di San Maurizio Canavese (a una ventina di chilometri Torino). Di quest’ultimo, non si sa moltissimo. Secondo Izzo, era «nato come campo d’esercitazione», poi, dopo l’Unità d’Italia, era stato riattato a campo di «rieducazione e prigionia dei giovani meridionali».
Fenestrelle, invece, è ancora tutto lì ed è un luogo che fa spavento. È una struttura di 1.300.000 mq, un forte che – trovandosi a un tiro di schioppo dalla Francia – fu inizialmente concepito per difendere il confine. I suoi edifici ringhiosi di montagna (lì si superano i 3mila metri), le feritoie e quella bava di scale di roccia che sale tra i dirupi colpirono persino Edmondo De Amicis che lo definì «necropoli guerresca». E De Amicis, va detto a vantaggio di chi non lo sapesse, il papà del libro «Cuore», non era certo tipo facilmente impressionabile, giacché – prima d’inforcare la penna – aveva passato la vita sul campo di battaglia. Era un ufficiale sabaudo.
Secondo le ricerche di Izzo, a finire nei lager piemontesi «furono ragazzi del Sud tra i 20 e i 30 anni. Erano soldati semplici e bassa ufficialità, che non vollero giurare fedeltà ai Savoia dopo aver giurato per i Borbone. Mentre, invece, praticamente tutti gli alti ufficiali dell’esercito duosiciliano passarono ai sabaudi». Ecco, quindi, perché migliaia di giovani vennero messi in ceppi e mandati in «campi di prigionia e rieducazione», perché «un uomo vero non è spergiuro», chiosa Izzo.
Per fiaccare le loro resistenze ad aderire al nuovo regime, pare che i Piemontesi siano stati piuttosto duri coi soldati del Mezzogiorno. «Ci sono le prove che, a Fenestrelle, non c’erano i vetri alle finestre e che i deportati venivano incatenavati. Inoltre – dice Fulvio Izzo – dormivano su pagliericci. I meridionali non avevano l’abbigliamen – to adatto e molti sono morti di freddo». Lo studioso ha raccolto l’esito delle sue ricerche storiche in un libro («I lager dei Savoia. Storia infame del Risorgimento nei campi di concentramento per meridionali») che è stato pubblicato dalla casa editrice napoletana Controcorrente.
«Quella lettura mi ha molto colpito – dice Antonio Pagano, direttore della rivista “Due Sicilie” – così sono andato personalmente a Fenestrelle. Sono rimasto scioccato. Ci sono ancora i ceppi con le catene e quei vasconi che i Piemontesi usavano per far sparire i cadaveri dei prigionieri. Li riempivano di calce. Che immagine terribile».
A dire il vero, i documenti dello Stato maggiore dell’Esercito non parlano nè di vasconi di calce, nè di corpi disciolti.
Due dati inconfutabili, però, ci sono. Il primo è che su quelle mura che chissà quante urla avranno attutito, campeggia la tetra scritta «Ognuno vale non in quanto è, ma in quanto produce». Una suggestione nera, che colpisce come un pugno e che – con i debiti, evidentissimi, distinguo – porta a galla il ricordo di un altro posto da incubo: il campo di sterminio di Auschwitz e quell’«Arbeit macht frei», cioè «Il lavoro rende liberi», monito per l’umanità a ricordare, a non dimenticare.
Il secondo dato inconfutabile è che questo «lager» di italiani meridionali è stato completamente rimosso dalla storia nazionale.
nei libri ci scrivono quello che vogliono…e ci manipolano
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